venerdì 15 agosto 2014

Attraverso lo specchio : l'arte psichedelica dal mandala ai light shows

Voler sondare l’universo psichedelico nella completezza della sue diversificate manifestazioni risulta operazione complessa dal momento in cui assume la fisionomia di un delta tentacolare che sfocia in differenti correnti culturali ed ingloba, su un piano interdisciplinare, tutta una serie di variopinte sfumature che interessano non solo la dimensione prettamente artistica, ma anche quella politica, spirituale, religiosa, filosofica, sociale, letteraria e poetica, ed antropologica in generale (1). Infatti, come lucidamente argomenta Guarnaccia, tale universo riflette «vari segnali di una ricerca mistico-evoluzionista che ci accompagna sin dal neolitico e che, indomabile, procede contromano rispetto alla visione integralista, basata sul controllo sociale e sul dominio del pianeta. [...] I fili di una cospirazione sotterranea e mutagena che, nel corso del tempo, ha tentato incessantemente di armonizzare il sociale con il biologico» (2).
Dunque, se pur il periodo che va dal 1965 al 1967, risulta essere quello della maggiore esplosione, della splendida fioritura dell’idioma psichedelico, ciò non vuol dire che questo rientri in una prospettiva limitata agli anni Sessanta o in un mondo circoscritto all’area anglosassone. Al contrario, ci sarebbe da tessere una trama fitta di relazioni che in base ad un medesimo fine proposto, ovvero quello dell’espansione della coscienza e dell’approdo a suoi differenti ed alterarti stati, possa accomunare logicamente anche realtà apparentemente lontane come quelle dello sciamanesimo messicano, della pittura visionaria del 500 europeo, dell’architettura organica espressionista degli anni Venti o ancora del Taoismo e del cinema underground, etc.


In questa sede, attendendo di cimentarsi nello specifico della stagione psichedelica londinese e della sua straripante produzione grafica in qualità di soggetto privilegiato di tale lavoro, consci dell’ampiezza di un possibile infinito discorso antropologico a 360 gradi, preme soffermarsi su quelli che, dal punto di vista strettamente artistico-visivo, sono i parametri caratteristici del fenomeno psichedelico della metà dei Sessanta, che con i suoi dovuti rimandi storici, raggiunge il climax tra il 1966 e il 1967, per poi continuare con intensità alterne nei primi Settanta.
Innanzitutto c’è da stabilire, in relazione a ciò che si prefigurava intorno al discorso che associa l’utilizzo delle droghe alla creatività artistica, quale sia il nesso tra l’esperienza psichedelica indotta dalla droga del periodo, ovvero Lsd, e la nuova produzione artistica. Già si è asserito, parlando di un doppio binario di visioni, come un elevato coefficiente d’immaginazione visionaria, possa essere conquistata, nella pratica artistica, non solo attraverso l’uso di sostanze stupefacenti, ma anche grazie a metodologie che agiscono sull’inconscio o meditative che operano sullo spirito; e come l’assunzione di determinate sostanze non è sufficiente di per sé ad implicare un miglioramento dell’atto performativo, che tuttalpiù può registrarsi in soggetti con doti tecniche ed immaginative già notevoli e fuori dal comune.
Da questo punto di vista però è imprescindibile il dover considerare la diretta ed effettiva responsabilità che la “rivelazione” della nuova esperienza psichedelica indotta dall’Lsd, ebbe nei confronti dell’apparizione di nuove forme artistiche.
Come sosteneva con forza Timothy Leary, tra i principali guru del nuovo culto per le potenzialità conoscitive e rivoluzionarie dell’Lsd, «Lsd cult has already wrought revolutionary changes in American culture. If you were to conduct a poll of the creative young musicians in this country, you’d find that at least 80 percent are using psychedelic drugs in a systematic way. And this new psychedelic style has produced not only a new rhythm in modern music but a new decor for our discotheques, a new form of film making, a new kinetic visual art, a new literature, and has begun to revise our philosophic and psychological thinking»(3).

 

Tuttavia, se da un lato sarebbe riduttivo considerare l’arte psichedelica del decennio come diretto prodotto dell’illuminazione provocata dall’Lsd, è sintomatico però considerarla nel suo tentativo di registrare e riflettere le fantastiche sensazioni e i fenomeni percepiti durante il viaggio, incantato ed onirico allo stesso tempo, da esso indotto. Nell’arte psichedelica c’è dunque un estremo desiderio di catturare i felici sentieri esplorativi che si perdono nella profondità della mente, allo stesso modo di come i Surrealisti cercano di riprodurre fedelmente nei loro dipinti i sogni e gli innumerevoli processi del loro inconscio(4). Ma accanto a questa operazione di restituzione dell’esperienza visionaria c’è anche la volontà di procurare una nuova serie di stimoli catalizzatrici per intensificare lo sprofondamento “nel sé” durante gli stati allucinogeni. L’idea artistica di base cioè, non è quella di un mera interiorizzazione e riproposizione di materia figurativa immaginaria, ma l’anelito verso una potenza espressiva e creativa in continua espansione.
«Psychedelic art – argomenta Grunenberg – not only recorded, documented, made visible and interpreted intoxicating drug experiences but also took on a role seldom assigned to creative products : to serve as a sensual catalyst in the evocation of fantastic, mind-expanding visions and to stimulate creative activity. The psychedelic experience is open to influence and direction and new stimuli are trans-formed in an unconscious process by which recorded images could be synthesized to result in a new creation»(5). Nella sua essenza l’arte psichedelica non è altro che un arte visionaria che si colloca in una tradizione immaginativa che dalla pittura di Bosch e Blake, pervade poi del suo spirito anche le correnti del Simbolismo, del Surrealismo o di certi aspetti della cosiddetta “Outsider Art” (è il caso, soprattutto, di Adolf Wolfli), ma che ingloba e sviluppa componenti tipiche dell’era storica in cui emerge.
«The Psychedelic style – sintetizza efficacemente ancora Grunenberg – was the result of a highly productive interaction between art, technology, politics, drug culture, music and many other influences, creating an extraordinary aesthetic exemplifying the spirit of liberation and freedom. Most important, however, was the environmental aspect of psychedelic art and culture, the expansion of form, colour, media and space in response to an expanding consciousness. The fusion of different artistic techniques in producing all-encompassing sensory spectacles was central to the new movement, culminating in a new hybrid art form variously labelled “intermedia”, multimedia or mixed media art. The borders between artistic techniques became amorphous and the most pertinent ideas emerged from the productive cross-pollination between disciplines, genres, media and cultures»(6).


Tipico della sua era, che la sintonizza dunque con un impostazione metodologica già specifica della contemporanea Pop Art, è innanzitutto il dialogo fecondo e l’osmosi che instaura con i più “effimeri” apparati della cultura popolare.
Tuttavia la trama dei rimandi figurativi a cui fa riferimento risulta amplissima e non sempre di facile codificazione. Questa sua fisionomia variegata che la mette in relazione con universi tra di essi lontani, emerge per esempio dal recupero della tipologia compositiva del mandala. Raffinato oggetto pittorico della tradizione orientale, utilizzato per facilitare le sessioni di meditazione presso le culture filosofiche indiane e tibetane, Buddismo ed Induismo in primis, il mandala può essere considerato come una vera e proprio pittura di “paesaggio interiore”.
L’oggetto della rappresentazione non è però l’universo fisico della natura, ma la mappa geografica dei diversi livelli energetici e di coscienza dell’uomo armonizzati con il cosmo. In altre parole, nei mandala, le strutture rigorose di forme geometriche e forme organiche colorate, corrispondono a livello spirituale, a quello che per lo spazio terrestre sono la disposizione morfologica di fiumi, monti, laghi o deserti.
L’intenso recupero negli anni Sessanta delle proprietà iconografiche del mandala, che sfrutta rigorosamente le sue qualità ottico-percettive, e già ampiamente riscontrato nelle nuove ricerche di animazione grafica del cinema d’avanguardia americano, è da considerarsi decisamente innovativo nel percorso storico dell’arte contemporanea occidentale, che fino a quel momento aveva dialogato con l’arte esotica soprattutto nei termini del dilagante fenomeno del Japonisme, che continua comunque vivace ad esercitare la sua influenza; come anche, nel caso della plastica Cubista, nello studio dei piani scultorei della tradizione africana.
Inoltre, influssi della tipologia mandalica sono riscontrabili anche nella sua veste messicana, ovvero quella che fa riferimento all'Arte Huichol (7) che è direttamente coinvolta nelle pratiche sciamaniche del rito del peyote.
Nell’era psichedelica tra i principali artefici di un recupero mandalico del fatto pittorico troviamo soprattutto Isaac Abrams che volge ad un nuovo linguaggio dopo aver sperimentato Lsd, ed è lo storico fondatore della Coda Gallery, la prima galleria d'arte psichedelica aperta a New York nel 1965.


Nei suoi primi lavori come All Things Are One Thing e The Golden City, The Serpents Dream del 1966 o Cosmic Orchird del 1967, Abrams combina sapientemente elementi floreali, biologici-molecolari e geometrici decorativi d'influenza indiana e tibetana per creare un arte di forte impatto mistico e meditativo.
La sua rilettura di precedenti intuizioni della pittura surrealista è innegabile (penso per esempio ad Unica Zurn) ma qui tutto è risolto in una nuova armonia cosmica e fantasmagorica, che lo rende precursore anche di futuri sviluppi della pittura psichedelica, che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, vedrà nuovo splendore grazie ad artisti visionari come Alex Grey, o come Robert Venosa e Pablo Amaringo nell'ambito della cosidetta Ayahuasca Art (8).
L'influsso di uno stile pittorico psichedelico coinvolge poi altri importanti artisti, come nella prima produzione figurativa di Adrian Piper, affermatasi al grande pubblico in territori decisamente concettuali. Prima ancora di essere affascinata dal lavoro di Sol Lewitt, la Piper si fa notare per i suoi LSD Paintings and Drawings del 1965-1967, in cui vengono trattati insieme elementi cubisti, espressionisti e op, che plasmono anche con linfa nuova il tema fiabesco di Alice in The Wonderland caro alla controcultura del tempo, come nei significativi Alice And The Pack Of Cards e The Mad Matter's Tea Party, dipinti entrambi nel 1966. C'è poi il caso già accennato di John McCracken che alla sua rigorosa ricerca minimalista affianca, sul finire degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, anche una intrigante realizzazione di mandala di sapore orientale. Emblematico, però, è il caso di Arlene Sklar-Weinstein che testimonia acutamente come l’esperienza psichedelica possa trasformare l’opera di un’artista. Profondamente colpita dal viaggio in Lsd, si mette a lavoro per rendere sulla tela il flusso di forme e lo spontaneo crearsi di arabeschi che aveva visto, come si evince dal suo celebre dipinto Between Heaven and Hell del 1966 .
In generale, come si vedrà più dettagliatamente nel repertorio grafico londinese, il vocabolario iconografico psichedelico attinge a piene mani non solo dal mondo dell’astratta ornamentazione orientale, ma riscopre anche il decorativismo neo-medievale del revival, dell’Art Nouveau e dell’epoca Edwardiana e Vittoriana.
Tuttavia si riscontra anche una vena figurativa più marcatamente realista nell’evocare l’esperienza lisergica nel caso emblematico di Mati Klarwein, pittore e grafico tedesco, famoso soprattutto nel contesto della “Cover Art” del disco, con i lavori celebri per Abraxas di Santana e per Live-Evil e Bitches Brew di Miles Davis.
In un lavoro esemplare come il suo tondo A grain of Sand del 1965, ad esempio, adopera una grammatica compositiva minuziosa che fonde elementi surrealisti con la cultura pop, dando luce ad un vortice di immagini stratificate con capacità miniaturistica che rimandano alla simultaneità rapida e fulminea della percezione psichedelica. L’immaginario surrealista di Klarwein sfocia poi anche nell’ambientale scatola di visioni del suo Aleph Sanctuary a cui lavora tra il 1963 e il 1971. La visione psichedelica ha un’estensione ambientale anche nel tempio psichedelico del Mandala di Allen Atwell del 1964, un unico e organico dipinto che copre le pareti e il soffitto di un’ampia stanza; mentre nell’ambito del design i progetti visionari di Verner Panton, come Phantasy Landscape, Visiona II, del 1970 , sembrano voler riprodurre le medesime atmosfere di un grande artista psichedelico come Ernst Fuchs, penso soprattutto a Job And The Judgment of Paris del 1966.



Tra tutte le componenti ed influenze artistiche che modellano l’universo psichedelico del decennio una riflessione di merito deve essere riservata, però, al fenomeno ad esso contemporaneo dell'Op Art.
Il linguaggio Op, che nelle figure emblematiche di Soto, Vasarely e Riley raggiunge un suo primo acume formale, affascina profondamente gli artisti psichedelici che tentono però di superare tanto il suo rigido paradigma geometrico quanto la limitazione nell’utilizzo del bianco e del nero, nonostante questo vincolo fosse, per certi effetti ottici, garante di risultati più incisivi, dinamici e drammatici.
Ciò che più attrae di questo linguaggio cinetico, che si prefissa di raggiungere il massimo riscontro percettivo attraverso la selezione di una semplice espressione grafica, è sicuramente il suo ampio repertorio di possibilità operative, suscettibili alla variazione e modulazione. L’introduzione dirompente del colore accompagna così la libera esplorazione di periodiche strutture dove cerchi si muovono in opposte direzioni, dove campi magnetici di linee fanno risuonare ritmi ipnotici, dove forme centrifughe e centripete si compenetrano e provocano distorsioni irregolari, disturbi retinali, movimenti apparenti che somministrati all’osservatore lasciano profondi segni irreversibili nella sua memoria.
Guardare alle possibilità dell'Op Art però, vuol dire anche rifarsi e ricollegarsi idealmente a tutte le esperienze precedenti, che nella medesima problematica, furono proprie delle avanguardie storiche. Infatti, è già nel Futurismo Italiano che si attuano pienamente le premesse per i futuri della ricerca Op-cinetica, e questo grazie alle precoci intuizioni di Balla; non già nella sua emblematica Lampada ad arco, ma nelle sue Compenetrazioni iridescenti del 1912-1913. Inoltre «with the orphist exploring abstract colour contrast – spiega Cyril Barrett – and the suprematist placing geometrical shapes flat on the canvas (not amorphous brushstrokes or washes or vague lines) we have by 1913 at least, the ingredients which were to go into the making of Op. Some of these ingredients are also to be found in the geometric abstractions of Neo-plasticism of Mondrian»(9). Dunque, bisogna considerare l’avvento maturo dell'Op Art come punto d’approdo di un complesso d’indagini progressive che abbracciano l’intera avventura dell’arte del XX secolo. Tanto le opere suprematiste di Malevich, quanto l’orfismo di Robert e Sonia Delaunay, del neoplasticismo di Mondrian o ancora di certo rayonism, come anche i film sperimentali di Léger e Prampolini, scrivono le prime pagine di un discorso che tra il 1920 e il 1930 sarà ulteriormente approfondito. E questo specialmente presso in Bauhaus, non solo con la serie delle “composizioni cromatiche” già illustrate precedentemente, ma anche con l’instancabile Itten che mette a punto numerosi esperimenti dagli effetti ottici.
Vanno poi sottolineati i contributi fondamentali tanto di Duchamp, con il suo Revolving Glass del 1920, il Rotary Demi-Sphere del 1925, i Rotoreliefs del 1935, nonché il suo pionersitico Anemic Cinema del 1926, quanto le opere seminali del Josef Albers degli anni Quaranta, tra cui gli importanti Graphic tectonics, Structural Constellations, Homage To The Square o Linear Optics.
Ora, se il linguaggio Op è per l’estetica visionaria dei Sixties il miglior viatico per riprodurre la distorsione della percezione e la fluidità d'immagine tipica dell'esperienza psichedelica, è lo specchio invece ad essere prescelto oggetto di purezza e devozione nell’edonismo senza confini ricercato dal movimento psichedelico.
Storicamente parlando, nello scorrere delle sue diversificate manifestazioni, l’intera vicenda dell’arte ha avuto spesso a che fare con le proprietà magiche dello specchio, al pari del vetro o del cristallo, che condividono entrambi qualità alchemiche di trasformazione e riflessione dell’immagine. Ciò è particolarmente evidente a partire dal XV e XVI secolo, quando con l’avvento del Rinascimento lo specchio inizia ad entrare in scena tanto come elemento iconografico all’interno dei dipinti, sia come strumento stesso per la realizzazione di sofisticati escamotage prospettici. Se Nel ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck lo specchio ha la funzione di dilatare lo spazio pittorico, ed in Parmigianino può giocare producendo curiosi deformazioni anatomiche, come nel Autoritratto entro uno specchio convesso, in Caravaggio è il coadiuvante prescelto per la composizione di certi dipinti. Tuttavia, più vicino all’estetica psichedelica e la sua relativa distorzione prospettica si colloca il misterioso fenomeno dell’anamorfosi, praticata anche da Leonardo, ma resa celebre sopratutto dalla pittura d’oltralpe tra XVI, XVII e XVIII secolo, che vanta il nome illustre di Erard Schon con alcune composizioni anamorfiche tra il 1535-1538, e dal più noto quadro I due ambasciatori di Hans Holbein il Giovane del 1533, con il teschio anamorfico raffigurato in primo piano. «L’anamorfosi – argomenta Jurgis Baltrusaitis - inverte gli elementi e i principi della naturalità prospettica: proietta le forme fuor di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato o riflesse in uno specchio particolare. Ne deriva un mondo in cui realtà e finzione finiscono per confondersi. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, una filosofia della realtà artificiosa. Le immagini ad un primo sguardo appaiono distorte, mostruose, indecifrabili, ma se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti particolari, si ricompongono, si rettificano, svelando figure a prima vista non percepibili. I visionari di ogni tempo hanno amato queste trasfigurazioni che rivelano il lato fantastico della natura. La rettifica operata dallo specchio, dove si vedono le forme esatte emergere dal caos, possiede anch’essa questo elemento soprannaturale: esse infatti ricompaiono non più su una superficie piana, ma entro una profondità che si rivela improvvisamente, insieme all’immagine, nel barbaglio dei riflessi metallici. L’immagine si anima, si muove, cambia al minimo spostamento degli occhi. Ruota in un regno fatato dove tutte le cose diventano presenti e intangibili allo stesso tempo»(10).



Nell’immaginario psichedelico lo specchio e le sue improvvise riflessioni svolgono un ruolo del tutto simile a quello che per il visionario del passato era rivestito dall’immagine anamorfica, ed è sempre visto come una membrana permeabile che filtra il reale attraverso l’inconscio, un portale d’accesso per nuovi mondi incantati e garante di rinnovata trascendenza spirituale.
Una trascendenza che, per la sua natura mistico-cosmica, è facilmente riscontrabile sul piano filosofico nell’arte Europea, non solo scomodando l’intervento esemplificativo delle vetrate nelle antiche cattedrali gotiche tralucenti di materia luminosa impalpabile, ma considerando quanti artisti hanno, tra Ottocento e Novecento, creduto nelle qualità terapeutiche e divinatorie del cristallo e del vetro, custodi delle più ardite allegorie e simbologie; e ciò a partire dall’illustrazione fiabesca della nuova narrativa fantastica europea, dalle visioni utopiche di Wenzel Hablik e Bruno Taut e dalla “poesia della trasparenza” di Paul Scheerbart.
L’artista che meglio comprende gli sviluppi artistici possibili delle leggi ottiche insite nello specchio è Ira Cohen che sfrutta la superficie riflessiva del mylar (polietilene tereftalato) per ottenere immagini di strabiliante impressione liquida e vaporosità rarefatta. Cohen crea la sua Mylar Chamber a New York nel 1967, una scatola spaziale delineata dai mylar in qualità di specchi flessibili e trasparenti, all’interno della quale filma e fotografa vari personaggi tra cui il cineasta Jack Smith e alcuni volti noti della scena rock psichedelica tra cui Jimi Hendrix, Noel Redding ed i componenti degli Spirit per i quali curerà poi le immagini di copertina per il bellissimo Twelve Dreams of Dr. Sardonicus del 1970. Il poeta e cineasta americano, che durante le riprese nella Mylar Chamber utilizza inoltre un doppio prisma per frammentare ulteriormente le riflessioni, darà poi vita al suo capolavoro indiscusso Invasion of Thunderbolt Pagoda del 1968, musicato dal percussionista Angus Maclise e probabilmente da considerarsi l’esperimento artistico più riuscito dei Sessanta nella sua volontà di riprodurre fedelmente il flusso vibratorio e sfumato tipico dell’esperienza psichedelica. «In the film – osserva Iles – the fluid reflections of the mylar-lined room extend the filmic space into a psychedelic infinity chamber, within which Smith and others float around like disembolied ghosts. Maclise’s hypnotic soundtrack, influenced by Eastern music and a meditative tonality, takes the viewer further into a melting space, demonstrating the fusion of music and image that became the hallmark of the psychedelic environment. In all the experiments with mirrored surfaces, the fragmentation of the image through prisms both mimicked and heightened the hallucinogenic experience»(11).
Vicine alle realizzazioni di Cohen vi sono poi i lavori del fotografo Arnie Hendin che era solito porre tre specchi di fronte all’obiettivo di due proiettori per rompere l’immagine in multiple sequenze colorate, come anche quelli di Yayoi Kusama che già nel 1965 allestisce una sua prima Infinity Mirrored Room che sarà poi un topos della sua più recente attività.
Le mirabilia dello specchio sono tutte concentrate nel caleidoscopio, inventato nel 1816 dallo scozzese David Brewster, autore poi di un Treatise on the kaleidoscope del 1819. Strumento dal forte impatto ludico, il caleidoscopio diviene molto comune in America a partire dal 1870 quando Charles Bush inizia a progettare più sofisticati caleidoscopi con specchi cilindrici riflettenti una serie di lastre di vetro intercambiabili e riempite con colori liquidi e rotanti e con forme di diversa decorazione. Verso la fine degli anni Cinquanta tale strumento, da piccolo intrattenimento d’uso domestico è trasformato in una più ampia e coinvolgente ambientazione, della quale i futuri sviluppi nella metà dei Sessanta saranno logicamente consequenziali.
Infatti, la tendenza alla multimedialità del linguaggio psichedelico diventa effettiva durante le esibizioni concertistiche e con l’avvento dei light-show funzionali al potenziamento del messaggio veicolato dalla performance musicale.
Nelle ambientazioni psichedeliche, elementi caleidoscopici, mandalici, luci radianti e proiezioni di composizioni organiche cromatiche di derivazione Op, si fondono dunque con forza per proporre la totalità di un rapimento psico-fisico. In altre parole il light-show è una proposta di arte totale, ed in quanto tale la summa massima dell’arte psichedelica. «Il tipico repertorio – argomenta Walker – di immagini offerto da un light show era costituito da forme ameboide riccamente colorate che si dissolvevano e riformavano come in un sogno. Tale effetto era prodotto mediante speciali diapositive contenenti acqua e oli che reagivano al calore del proiettore. Queste immagini astratte non geometriche servivano da ideale accompagnamento visivo ai lunghi assoli strumentali dei musicisti e ai sogni indotti dall'erba e dall'Lsd»(12).
Nel corso del XX secolo, le ricerche volte a stabilire una sintesi dialettica tra testo musicale e immagine, tra prassi compositiva musicale e strutturazione pittorica, tra armonie timbriche e accordi cromatici, hanno sempre esercitato un fascino particolare nel pensiero dei pittori. Dalle indagini di Kandinskij in relazione alla dodecafonia schonberghiana al Manifesto della Pittura dei suoni, rumori e odori di Carrà, alle comparazioni tra l’opera pittorica di Mondrian con Webern, fino ad arrivare alle esperienze informali di Dubuffett o Mathieu, le proposizioni per una possibile comparazione tra due livelli comunicativi e sensoriali differenti, si sono susseguite secondo precise disposizioni speculative e realizzazioni formali(12). Nell'ambito dei light show per esempio, il tipo di figurazione astratta utilizzata per ottenere la fusione suono-immagine, può rimandare alle esperienze pittoriche dell’informale europeo e dell’espressionismo astratto americano. Voglio dire che le stesse proprietà ipnotiche di certo linguaggio pittorico informale, istintivo e gestuale, nel caso della performance concertistica, risultano essere funzionali nell’accompagnamento di flussi musicali dalla struttura compositiva aperta ed aleatoria, volta all’improvvisazione, tipica del nascente free-rock psichedelico della metà degli anni Sessanta.



Così nelle proliferazioni cromatiche di queste nuove ambientazioni non è difficile scorgere esplosioni liquide che ricordano un Wols oppure sequenze plastiche organiche che assomigliano alla poetica di un Gorky. A ben vedere, nell’orgiastico trionfo del colore dello spettacolo luminoso-psichedelico sembra quasi attuarsi completamente quel sogno a lungo perseguito da Pollock di diffondere a tutto l’ambiente la qualità di un immagine pittorica infinita; prerogativa che dalla fine degli anni Cinquanta era comunque stata superata criticamente dall’avvento degli happenings grazie soprattutto al lavorio teorico di Allan Kaprow. È quest’ultimo che grazie a Cage, acquisisce il concetto di caso come meccanismo compositivo; e, nonostante il modello illustrato da Cage fosse quello di una partitura che elencava tanto gli oggetti da usare in azioni rumorose quanto la durata di ognuno di queste azioni, con l'aggiunta della dimensione spaziale, del movimento e della disposizione dei partecipanti, Kaprow accentua la dimensione teatrale degli eventi e il loro legame con la tradizione dadaista. Da queste premesse teoriche nascono i primi happening pubblici (il ricordo va ai 18 happenings in 6 parti del 1959) dove suoni, rumori, luci si fondeno ad una proliferazione di gesti, azioni, dove materiali e oggetti disparati possono essere utilizzati o distrutti nel corso di una serie di atti non sequenziali e che possono essere apparentemente estranei a qualsiasi principio di coerenza. Come vedremo meglio nel capitolo seguente, l’importanza che presso le controculture ha la ridefinizione delle arti performative sempre più proiettate al superamento dei confini tra i generi artistici, dimostra come la stessa forma dell’happening ed in generale ogni forma di spettacolo che puntasse alla teatralizzazione multimediale degli eventi inizia ad esercitare un fascino sempre più grande nei confronti del pubblico o dei musicisti stessi.
È proprio la forma libera e priva di una trama lineare, tipica dell’happening, ad interessare gli artisti psichedelici. In questo modo l’ambientazione “pirotecnica” dei light-show diventa spesso teatro di caotici happenings dove danzatori, artisti di body paintings, palloni e altri e oggetti volanti si fondono con il pubblico e le colorate sequenze luminose, come il famoso Self-Obliteration di Yayoi Kusama, svoltosi al Fillmore East di New York il 6 e il 7 dicembre 1968. La scelta di un linguaggio free-form, di un estetica imprevedibile e aperta a multiple illuminanti rivelazioni è da ricercare nella profondità del messaggio da veicolare. «The pervasive formlessness of psychedelia – scrive Grunenberg – functioned as a direct visualitation of the spirit of individuality and liberation and was perceived as clearly opposing the constraints of rigid social order, the repressive authority of conventional morality and the regulative mechanisms of the dominant capitalist system at the height of its development80»(13).
L’anima trasgressiva dell’arte psichedelica si manifesta quindi con forza nell’elaborazione di una omnicomprensiva ambientazione dove proiezioni, film e video, flickering light, giochi di luce colorata realizzano la più completa sinestesia, dove il corpo del partecipante percepisce di diventare una cosa solo con gli altri, con i suoni e lo spazio architettonico circostante. Sono labirinti profondi ed inestricabili per la mente come quelli descritti nell’Aleph di Borges, con riflessioni e rifrazioni di sostanza luminosa che aboliscono i confini tra le superfici, e il corpo si trova catapultato in un vortice serpentino dove ritmi ipnotici di linee e forme organiche amebe e vegetali, vuoi di derivazione Rococò, Art Nouveau o Simbolista, proiettano spiritualmente verso un ignoto stato di amplificata liberazione sociale, erotica e psico-creativa. Tuttavia, ancora prima che il fenomeno del light-show divenisse, alla metà degli anni Sessanta, strettamente legato alle esibizioni rock psichedeliche, un primo approccio di queste esperienze multimediali viene condotto a San Francisco durante gli anni Cinquanta, durante spasmodiche jam sessions jazzistiche e nel corso di readings poetici dell'eversiva scena Beat. Tra i precursori che iniziano a codificare il cosiddetto “wet show process”, ovvero la libera miscela di tinture e colori liquidi all'interno di sottili piatti di vetro roteanti, troviamo già nel 1952 Seymour Locks, che sperimenta con diapositive riempite di oli ed inchiostri colorati poste poi davanti al proiettore per successive manipolazioni. Appare abbastanza logico, perciò, che quando la controcultura della West Coast americana fiorisce nel pieno degli anni Sessanta, la sperimentazione con proiezioni, film e nuove apparecchiature meccaniche diviene una costante fondamentale per l’intera comunità artistica alternativa, che allargherà il raggio d’azione anche alle rappresentazioni teatrali e performances di gruppi radicali come l'Open Theatre ed il Living Theatre. A partire dal 1966 nascono così numerosi collettivi e compagnie d’artisti che nell’ambito dei light-show maturano un loro personale stile identificativo, legando spesso questo stile al nome di una band in particolare. E ci si distacca facilmente anche dalla pura animazione astratta, introducendo nuove tecniche per la proiezione di diapositive illustrative delle canzoni, di filmati d’attualità o danzatori in visibilio, come anche installando complessi circuiti televisivi chiusi o visionando più pellicole su multipli schermi. Tra i pionieri del genere troviamo il collettivo sperimentale Usco, Glenn McKay con il suo Head Light, e soprattutto Bill Ham con il suo Light Sound Dimension, attivo già dal 1965 (fig.15). In un medesimo ambito arte multimediale si collocano anche le speriementazioni di alcuni cineasti come Jackie Cassen e Rudi Stern, Don Snyder, Francis Lee e Jud Yalkut.
L'estensione del fenomeno si registra poi man mano che sorgono nuovi luoghi culto della nuova scena musicale, a partire dall'inaugurazione del Fillmore East a New York, che diviene il quartier generale del fantasmagorico Joshua Light Show.
Il suo sofisticato e raffinato assortimento tecnico include il wet show, dischi rotanti colorati, lumia effects, films, disco balls, circuiti video e luci colorate stroboscopiche e caleidoscopiche; ed inoltre utilizza retro-proiezioni per aumentare l’intensità dei contrasti cromatici e la persistenza illusionistica dell'immagine nello spazio.
Altra figura di riferimento è poi quella del nomade Ken Kesey che, con i suoi Merry Prankster, è tra i principali divulgatori dell’Lsd nei suoi celebri Acid Tests tra il 1965 e il 1966. A differenza di Leary, che pur esercitando un forte impatto sulla controcultura, sublima la scoperta lisergica nel piccolo alveolo di Millbrook dove la sperimentazione dell’Lsd viene condotta con maggiore sensibilità scientifica nella pace nirvanica di un ambiente culturale raffinato e devoto alle filosofie orientali, lo spirito guerriero di Kesey è pragmaticamente populista nella sua volontà di diffondere senza riserve la rivelazione apportata da un sostanza, che se già sperimentata nei circoli artistici e scientifici degli anni Cinquanta, nonché presente nel noto piano Mk-Ultra della Cia americana per le sue ricerche sul lavaggio del cervello, solo alla metà degli anni Sessanta stava convertendo in massa nuovi adepti, in virtù anche della sua annunciata illegalità a partire dal 1966. Entrambi però sono accomunati dal credo inamovibile che un radicale cambiamento del sistema politico e sociale era possibile solo attraverso un significativo e diffuso cambiamento di coscienza. Durante i deliranti happenings degli Acid Tests, i magazzini occupati o affittati per l’occasioni diventano perciò teatro di strabilianti light-show con ampio dispiegamento di attrezzature tecniche, funzionali alla buona riuscita del “rituale”e della conversione. D’altronde, la grande fortuna che lo spettacolo psichedelico ha nella sua era di massimo splendore è testimoniata anche dall’influenza che esercita sugli artisti contemporanei legati ad altri filoni di ricerca. È il caso soprattutto di Andy Warhol che inaugura il suo Exploding Plastic Inevitable Show nell’aprile del 1966 al Polish Club Dom di New York. Da sempre sensibile ai differenti medium artistici, Warhol comprende le possibilità espressive dei nascenti light-show, ma il tono complessivo dello scenario da lui allestito per le performance dei Velvet Underground, con proiezioni di suoi film, luci stroboscopiche e le danze macabre del performer Malanga, è sostanzialmente diverso dal tono mistico e paradisiaco delle ambientazioni in voga a San Francisco. Evita così le forme amorfe e amebe care all’estetica hippie, inserendo piuttosto gigantografie, sequenze geometriche Op e riflessi ottenuti con il disco ball. Il risultato volge così più verso il kitch, ed un notevole grado di edonismo ed esibizionismo criticano esplicitamente e brutalmente ogni forma di spiritualismo religioso. Tuttavia lo stile californiano esercita comunque un certo impatto su Warhol, se è vero che in The Chelsea Girl del 1966 appaiano notevoli sequenze psichedeliche d’intensa cromaticità; come del resto è ipotizzabile un parallelo tra l’estensione della durata dell’immagine ed il ritmo stabile ed ipnotico di certi film di Warhol, con l’alterata percezione di spazio e tempo propri di uno stato allucinatorio. Se il caso di Warhol non è isolato, e possiamo citare anche Otto Piene che volge ad un linguaggio psichedelico insieme allo Zero Group, l’intensità della diffusione di questo fenomeno multimediale è quantificabile anche grazie all’apertura di nuovi nightclubs, tra cui i celebri “Electric Circus” e “Cerebrum” di New York, che al pari delle roccaforti del nuovo sound acido stavano seriamente rompendo le barriere tra il mondo dell’arte e dell’intrattenimento, operando per la conquista di una nuova emotività collettiva.
«Anche le discoteche – argomentano Masters e Houston – si propongono lo scopo di modificare le condizioni dei clienti e di ottenere la loro totale partecipazione nell’ambiente più favorevole. Il metodo è quello di un’aggressione ai sensi. Luci colorate fluttuano, ammiccano e sfrecciano, si odono dei suoni, e la mente è inondata da sensazioni che possono manifestarsi sulla superficie del corpo tangibili vibrazioni. L’esperienza è soprattutto sensoriale – visiva, auditiva, tattile, cinetica – e le catalessi oculari indicano che alcuni ballerini sono entrati in uno stato simile al trance: l’elettronica produce gli effetti dei rituali primitivi e delle riunioni di certe sette protestanti come quella degli Holy Rollers»(14).
Sta di fatto che il virus psichedelico a partire dal 1967 è contagioso a livello globale con centri artistici di rilievo non solo a San Francisco e New York, ma anche in Europa, non solo nella dorata Londra “swinging”, ma anche a Parigi, Berlino, Dusseldorf, con il suo storico bar Creamcheese aperto da Hans-Joachim e Bim Reinart, come anche Francoforte, Vienna o Copenaghen.


di Andrea Maria Simoniello

tratto dalla tesi di Laurea

"Sogni e allucinazioni: la grafica psichedelica a Londra negli anni Sessanta"

(2013)



Note Bibliografiche:

1)In merito si veda Robertson Davies, What do you see in the mirror? A footnote to the psychedelic Revolution, Agincourt, The Book Society of Canada Limited, 1970; The Psychedelic Era: From Huxley To Lennon, in Peter Haining, The hashish club: an anthology of drug literature, P.Owen, London, 1975; Enzo Gentile, Matteo Guarnaccia, Odoardo Semellini (a cura di), Kaleidoscope 1964-1974.Suoni e visioni della psichedelia, catalogo della mostra tenutasi a Carpi nel 2004, Comune, Carpi, 2004; Mario Arturo Iannaccone,Rivoluzione psichedelica : la CIA, gli hippies, gli psichiatri e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta,Sugarco, Milano, 2008. 
2) Matteo Guarnaccia, Psichedelica, Eroi Situazioni Arte e Letteratura, Shake, Milano, 2010, pg 7.
3)Timothy Leary, Playboy Interview, 1966. In merito si vedano anche T.Leary, Ralph Metzner, Richard
Alpert, The psychedelic experience: a manual based on the Tibetan book of the dead, University Books, New
Hyde Parks 1964, trad.it.di Ugo Carrega, L’esperienza psichedelica, Sugar, Milano, 1964;
T.Leary,ThePolitics of Ecstasy, Putnam’s Sons, New York, 1968.
4)Tuttavia l’arte psichedelica diverge da quella dei surrealisti sotto alcuni aspetti e alla luce dell’identificazione di alcuni specifici valori. A tal proposito Masters e Houston scrivono: « Il surrealismo era esclusivo; l’arte psichedelica è inclusiva: essa non esclude il mondo esterno ma piuttosto afferma il valore dell’interiorità come coscienza complementare. Lo scopo dell’esperienza psichedelica è quello di espandere la coscienza in modo che possa abbracciare molto di più. A differenza del surrealismo, l’arte psichedelica pone il dogma fondamentale dell’armonia spirituale con l’universo. L’arte psichedelica non è in posizione d’antagonismo rispetto all’arte religiosa del passato e non presenta affinità con l’arte demoniaca o eretica come tale. È più matura del surrealismo nel suo rifiuto di dare lo stesso rilievo al bello ed al grotetsco. Non è attratta dalla pazzia o dalle allucinazioni della pazzia.[…] Mentre il surrealismo è magico, l’arte psichedelica ha verso la mente un atteggiamento scientifico. È anche un’arte religiosa e mistica […] Barry Schwartz chiama l’arte psichedelica “il surrealismo di un’era tecnologica”. Ciò appare vero se si pensa che gli psichedelici, insieme con la tecnologia, hanno dato una nuova dimensione a gran parte della problematica dei surrealisti», Robert E.L. Masters, Jean Houston, op.cit., pp 97-98.
5) «L'arte psichedelica non solo registra, documenta, rende visibile l'eccitante esperienza della droga ma
svolge un ruolo raramente assegnato ai prodotti creativi: essa funge da catalizzatore sensoriale
nell'evocazione del fantastico, espandendo le visioni della mente e stimolando l'attività creativa. L'esperienza
psichedelica è aperta per influenzare e direzionare e nuovi stimoli sono trasformati in un inconscio processo
grazie al quale le immagini registrate possono essere sintetizzate per ottenere una nuova
creazione», Christopher Grunenberg, Lsd Art : The Birth of A Psychedelic Style, in op.cit, p.18.
6) «Lo stile psichedelico fu il risultato di un intensa interazione tra arte, tecnologia, politica, cultura delle droghe, musica e tante altre influenze, volte a creare una straordinaria estetica esemplificativa dello spirito di liberazione e libertà. Ancora più importante, tuttavia, fu l'aspetto ambientale dell'arte e della cultura psichedelica, l'espansione della forma, dei colori, dei media e dello spazio nell'ottica dell'espansione della coscienza. La fusione delle differenti tecniche artistiche in vista della creazione di un omnicomprensivo spettacolo sensoriale fu centrale per il nuovo moviemnto, culminante in un nuova forma d'arte ibrida variamente chiamata "intermedia" multimedia o mixed media art. I confini tra le tecniche artistiche divennero amorfe e le più audaci idee emersero dal produttivo incrocio tra discipline, generi, medium e culture»,
Christopher Grunenberg, in op.cit, p.7.
7) L'arte tradizionale Huichol trova la sua massima espressione nei quadri chiamati “nierika” nella lingua uto
Azteca. Il termine, spesso impropriamente tradotto come "volto del mondo", ha un significato piuttosto
vasto, che riflette più sovrapposizioni esoteriche. Vuole allora significare il volto, l'apparenza delle divinità,
ma sta anche a designare il “passaggio”, “lo specchio”, mediante il quale gli Huicholes raggiungono la
dimensione visionaria della realtà mitica atemporale, dove gli uomini possono dialogare con gli dei, con le piante e con gli animali. Quindi nierika significa anche “visione”: la visione prodotta dal sogno o dal sacro
cactus, il peyote e ispirata dai miti ancestrali. In merito si veda anche Kathleen Berrin (a cura di), Art of the
Huichol Indians
, catalogo della mostra tenutasi a Chicago, New York e San Francisco nel 1978-1980, Fine
Artes Museums of San Francisco:Harry N.Abrams, New York, 1978.
8) Analogamente all’Arte Huichol, la cui figurazione è strettamente legata alla simbologia relativa ai rituali
indiani del peyote, per Ayahuasca Art s’intende tutta una produzione pittorica dai toni decisamente visionari
relativa all’esperienza di artisti che cercano di restituire le potenti visioni provocate dal rito sciamanico della
Ayahuasca. In merito si veda anche Massimiliano Geraci, Federica Timeto (a cura di), True visions: the art of
Ernst Fuchs, Alex Grey, Allyson Grey, Matteo Guarnaccia, Martina Hoffmann, Mati Klarwein, Roberto
Venosa
, Betty Books, Bologna, 2006.
9) «con l'astratta esplorazione orfista di contrasti di colore e la disposizione suprematista di forme geometriche piane sulla tela (non amorfe pennellate o linee contorte) noi abbiamo dal 1913 almeno, gli ingredienti che servirono nella realizzazione dell'Op. Alcuni di questi ingredienti possono essere ricercati anche nelle
astrazioni geometriche del Neo-plasticismo di Mondrian», Cyril Barrett, Op Art, Studio Vista, London, 1970,p.22
10) Jurgis Baltrusaitis, Anamorfosi, o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Adelphi, Milano, 1978, p.10
11) «Nel film i fluidi riflessi della stanza delineata con i mylar estendono lo spazio filmico nell'infinità di una
camera psichedelica, con la quale Smith e gli altri fluttuanti sembrano fantasmi senza corpo.L'ipnotica
colonna sonora di Maclise, influenzata dalla musica orientale e da una tonalità meditativa, proietta lo
spettatore in uno spazio fondente, dimostrando una fusione d'immagine e musica che diviene il punto più alto
dell'ambientazione psichedelica. In tutti gli esperimenti con le superfici a specchio, la frammentazione
dell'immagine attraverso i prismi imitano e intensificano l'esperienza allucinogena» Chrissie Iles, Liquid
Dreams
, in Christopher Grunenberg (a cura di), op.cit, p.71
12) John Walker, Cross-overs.Art into pop/pop into art, Methuen, London;New York, 1987, trad. it di Marco
Farano, L’immagine pop: musica e arti visive da Andy Warhol alla realtà visuale, EDT, Torino, 1994, p.68.
79 Per un approfondimento sul rapporto musica e immagine cfr. Guido M.Gatti (a cura di), Quaderni della
Rassegna musicale. Musica e arti figurative
, Einaudi, Torino, 1968.
13) Christopher Grunenberg, op.cit., p.63
14) Robert E.L. Masters, Jean Houston, op.cit., p.86.

martedì 12 agosto 2014

Andrea Seki - Orizzonti Bardici

Il percorso artistico, musicale ed umano di Andrea Seki si colloca nell'ambito di una poetica di folk immaginario e visionario che apre alla possibilità di una ricerca sonora in continua espansione, le cui variopinte sfumature oscillano tra un sentito sguardo verso la tradizioni del passato e un costante anelito verso i linguaggi di un nuovo archetipo futuro. Originario della Tuscia, Seki muove da giovanissimo i suoi primi passi nel mondo della musica abbracciando prima lo studio della chitarra e, successivamente, quello del liuto rinascimentale e barocco. Il suo forte interesse per la musica antica lo porta ad approfondirne i repertori frequentando alcuni tra i migliori maestri europei di liuto, tra cui Andrea Damiani e Jacob Lindberg, con il quale studia a Londra nei primi anni Novanta. Una prima svolta del suo viaggio musicale è peró l'incontro profondamente spirituale con la musica indiana. Inizia così la pratica anche del sitar sotto la guida di Gianni Ricchizzi, profondo conoscitore dell'universo sonoro indiano e fondatore della Saraswati House presso Assisi. I numerosi viaggi in India, specialmente i soggiorni di studio a Varanasi, dove studia con il grande pandit Raj Bhan Singh, approfondiscono questa componente del percorso (concretizzato con il diploma presso l'istituto indiano Prayag Sangeet Samiti di Allahabad nel 2000) offrendo la possibilità di penetrare anche altri aspetti della cultura indiana come lo yoga, la medicina ayurvedica e il pensiero filosofico in generale. L'incontro decisivo con l'arpa celtica avviene durante un viaggio di ricerca sonora nel '95 in Bretagna, con il quale suggella il ritorno ad una terra dell'anima da tempo conservata nell'inconscio. Da questo momento in poi Andrea si dedicherà totalmente all'arpa con devozione bardica, vedendo in essa il più grande dono della vita, lo strumento di una missione spirituale senza confini che tutt'oggi lo conduce. Dopo i primi anni di studi con Hervé Queffelan (An Triskell) presso l’Ecole Nationale de Musique a Brest, dove viene indirizzato all'approfondimento dei repertori della tradizione bretone, irlandese e  gaelica scozzese, apprende successivamente le tecniche dell'arpa gaelica antica (a corde di metallo detta” Clarsaich”) con la harper Violane Mayor, e si perfeziona presso gli stage organizzati dal CRIHC (Comité Rencontres International De Harpes Celtique) di Dinan, di cui oggi è membro attivo. I viaggi lungo le rotte celtiche lo portano a ripetuti soggiorni e lunghi periodi di vita in Bretagna, Irlanda e anche in Galizia. Frequenta e collabora con artisti importanti del circuito della world music e del folk celtico tra cui i galiziani Luar Na Nubre (sua è l’arpa nel brano Canto De Andar nel disco  Camiños da fin da Terra del 2007) Myrdhin, Eoin Duignan, Kristen Nikolaz dei Kern, Fabrice de Graef, David Hopkins etc. Parallelamente al raggiungimento di una personale padronanza stilistica con l'arpa celtica Andrea da vita nel 1998 al progetto musicale "Elfic Circle", concepito come un collettivo aperto di musicisti di diversa formazione musicale, secondo un energia operativa che negli anni Settanta era già stata tipica di collettivi come i tedeschi Popol Vuh ed Embryo o gli Aktuala in Italia. 


La vena squisitamente sperimentale degli "Elfic Circle Project", in cui confluiscono elementi disparati quali la tradizione bardico-celtica, la musica indiana, il rock e le sonorità del folk di matrice più psichedelica e trance, è testimoniata da un intensa attività concertistica in Europa ed India, e trova una prima sintesi originale nei primi album Verso Ys e Journey To Another Land. Le composizioni del primo, dopo una primitiva uscita su cassetta e cd autoprodotti, vedono una pubblicazione più ufficiale nel disco Fairylands del 2001 prodotto da Giorgio Calcara. Il lavoro, se pur suggerisce ancora l’ascolto di un sound per certi aspetti ancora in rodaggio e dunque sottilmente acerbo in alcuni passaggi in cui si percepisce la ricerca di un suo assetto più omogeneo, contiene già gli ingredienti tipici delle opere successive e testimonia di una visione musicale sicura e consapevole delle strade da percorrere nel futuro. La musica di Seki e compagni si presenta sin dall’inizio misteriosa, sprigionatrice di messaggi segreti e magici, collocandosi nella volontà di un serrato dialogo tra tepore nordico celtico e mistica orientale. Se la titletrack Fairylands è un tema angelico che rivela precocemente la cifra dello stile bardico tipica di più tarde composizioni, una melodia di sapore crepuscolare che apre irrimediabilmente al “sogno” grazie anche al contributo prezioso alla viola da gamba di Massimiliano Annibaldi (fedele collaboratore anche nei successivi dischi), la raffinata Bardic Suite testimonia dell’interesse costante per le danze della tradizione bretone. L’amore per le terre d’Armor si fa esplicita anche grazie al recupero di antichi testi della celebre raccolta delle Barzaz Breizh, tra cui Yannig Skolan e Un Durzhunel, mentre l’omaggio alla musica indiana si manifesta nell’improvvisazione del Raga Bhimpalasi registrata a Varanasi, e dove Seki suona il sitar accompagnato al sax dal jazzista Roberto Rega. L’importanza di questo primo lavoro risiede però anche nel condensamento, in sede di elaborazione dei testi, dei temi cari all’immaginario culturale-spirituale di Seki. E così, in un progetto che si propone di celebrare “lo spirito selvaggio e guerriero” di quelle terre che accolsero la leggendaria e maestosa città di Ys (celebrata nei brani Verso Ys…e Ritorno a Ys) custode di una perduta e preziosa coscienza universale  sommersa dall’avvento del mondo cristiano romano, si alza una voce “messianica” e “profetica” circa le sorti dell’umanità;  e questo in brani come Aurora Siderale (“…ritorneremo come stelle alle bianche torri di luce/nell’oscurità della notte/ritorneremo come sogni e pensieri/nelle siderali valli stellari/e viaggeremo oltre i pensieri/verso le siderali valli senza fine...”), presente solo sull’iniziale Verso Ys, o Al Di Là dell’Oceano (“…credo sia il tempo di andare oltre l’oceano/lasciando le nostri menti/nel fluttuare delle paure…”).


A Journey To Other Land del 2005 non si discosta di molto dalle precedenti incisioni, semmai ne perfeziona i contenuti e gli intenti di esplorazione psichedelica, ma ne conserva una medesima e sostanziale strutturazione dei brani, ancora una volta tutti originali. Nell’incipit Secret Legends Seki si cimenta anche alla dilruba (esraj) ed è questo cordofono indiano a dialogare magicamente con la viola da gamba del solito Annibaldi, a creare un flessuoso tappeto sonoro antico che profuma di solarità orientale, una sorta di bordone vaporoso su cui volano le derive armoniche dell’arpa ed incedano equilibrate percussioni esotiche. Breton Circle ci conduce ancora nel mondo archetipo delle melodie bretoni mentre in Malkons (night raga), il recupero del Raga Malkauns sembra aprire ancora a certe cadenzialità tipiche della danza orientale, percezione sostenuta anche dal canto di matrice vedico-mantrica, di cui Seki ne offre buoni saggi appresi duranti i suoi soggiorni levantini. La perla del disco è però Menez-Hom, piccola suite indo-celtica dall’intensa carica ipnotica arricchito da synth di gusto notturno e dal ritmo incalzante del program-drums; il risultato è quello di una musica squisitamente trance-progressiva, espressa però nei termini della jam-improvvisata che ben documenta una certa indole “freak” d’approccio libero, collettivo e spontaneo all’esecuzione, e dove il sax corposo di Rega apre a venature jazzistiche ben amalgamate ai vocalizzi eterei. Menez-Hom è forse il brano che consacra una prima maturità espressiva, le cui soluzioni formali preannunciano una più compiuta rivoluzione sonora attuata più avanti in Through The Passage del 2010. Il disco presenta inoltre un ulteriore versione di Aurora (con testi anche in inglese e mutuata dalla originaria Aurora Siderale) dove però l’atmosfera ricamata dalla dilruba si fa ancora più onirica e fantasmagorica, apre ad una dimensione “altra” colorata dal suono galattico delle corde di metallo dell’arpa dal quale nasce ancora una volta il canto devozionale del visionario. La voce narrante in tedesco di Anita Foerster amplifica poi il tono di astrazione cosmica del brano, c’è quasi qualcosa delle suite spaziali degli Ash Ra Temple dalle parti di Jenseits (Join Inn, 1973), ma qui rimane l’arpa il vero cerimoniere del suono. Altro brano d’interesse è quello che da il titolo al disco, ovvero A Journey To Other Land (tuttavia non incluso nel mastering finale e inizialmente ideato anche in una versione cantata) che conferma il mood progressivo del gruppo, abile nel disegnare frequenze a cavallo tra il jazz-rock e il mondo mitologico dell’arpa.

 

La musica degli Elfic Circle Project, perciò, si fa subito narratrice di un arcano universo interiore e, seppur debitrice in quelche modo dei pionieri dell’arpa celtica bardica come Myrdhin o Alan Stivell, si fa promotrice di una rielaborazione personalissima delle fonti antiche d’ispirazione, sia celtiche che indiane. E la vocazione profondamente bardica di Seki lo accosta piuttosto al mondo del folk-psichedelico europeo, accanto a personaggi come Robin Williamson o In Gowan Ring, con i quali condivide lo spirito dell’eterna giovinezza propria del bardo-menestrello medievale (e non è un caso che Seki ha sempre riconosciuto un personaggio nostrano come Angelo Branduardi tra i suoi artisti più ammirati). La profonda conoscenza dell'universo dell'arpa celtica e dello stile bardico è consacrato nel libro-cd L'arpa celtica del Sidhe (divenuto in Italia un autentico cult nel settore) edito da Stampalternativa nel 2007, in cui vengono affrontati diversi aspetti storici, antropologici, esoterici e terapeutici dello "strumento del sogno". Le composizioni contenute nel cd Arpe Del Sidhe (in pratica uno split con brani tratti anche dal disco Harpsody del 2004 del Duo Ars Celtica di Zil & Myrdhin, che cura anche un saggio del libro), sono forse quelle stilisticamente più affini all’emblema di uno stile bardico, nella misura in cui si fa parlare all’arpa una lingua naturale, più fluida, che trae ispirazione da un contatto intimo con il paesaggio circostante e da un segreto dialogo con gli elementi della terra, dell’acqua e dell’aria. In questo modo le composizioni di Seki finiscono per essere delle “intuizioni-meditazioni” che sembrano nascere da una “coscienza cosmica superiore”, della quale l’arpista-bardo ne diventa l’ideale tramite per la concreta rivelazione di nuove forze nascoste. The Last Breeze Of Summer è tema tra i più belli del repertorio dell’artista viterbese, brano che rievoca le ore passate a suonare e comporre sulle baie di Crozon e Douarnenez nel Finisterre bretone, terra di miti e leggende in cui tutt’oggi risiede. Se in Ottobre In Galizia il suono dell’arpa si fa più rarefatto, progredendo lento come un fiume carico di sottili vibrazioni amplificate da inserti di campane tibetane e sonagli quasi impalpabili, il mood di Onde D’Atlantico si fa più inquieto e onirico e delinea un paesaggio più frastagliato, come da foresta oscura sconvolta dalla tempesta del mare, in cui si perdono lontani nello sfondo le derive melodiche del solito Rega al sax. Gli altri due brani del disco sono altre due incisioni pregevoli e confessano del legame inscindibile che Seki instaura con la tradizione bretone e gaelica. In Gaelic Winds tutto è puro movimento, lievitazione in uno spazio immaginario dove alcune tunes irlandesi e una curiosa “tarantella atlantica” sono trasposte e variate con grande fantasia d’arrangiamenti, tutto come se fosse un grande flusso di onde oceaniche o un gioco di venti ascendenti e discendenti; mentre Troellen Breizh (spirale bretone) ripropone una suite di tre danze tradizionali bretoni. 


Arpe Del Sidhe segna dunque in maniera più sistematica la volontà, tipicamente bardica, di reinterpretare e perciò mantenere in vita (non imbalsamandole nella pura tradizione) le antiche melodie; volontà che si palesa anche nelle esibizioni dal vivo, dove all’esecuzione di brani interamente di propria composizione, Seki può accostare le variazioni su temi celebri (è il caso delle celebri Scarborough Fair o Maru Pontakalleg) e arrangiamenti nuovi di differenti stili di danza (laridé, gavotte o plinn). In effetti le incisioni su disco non esauriscono del tutto le possibilità espressive dell’Elfic Circle Project che tra il 2007 e il 2009 vive anche una intensa stagione concertistica tra Bretagna, Italia, Germania, Galizia e alcune tappe in India. Di questo periodo è da segnalare almeno il trio con lo stesso Seki all’arpa e al canto, Christian Noçon al sitar, e Debasish Bhattacharjee alle tabla.
Nello stesso 2009 l'incontro con il produttore e musicista americano Delmar Brown (già collaboratore con i vari Gil Evans, Miles Davis, Quincy Jones, Jaco Pastorius, Sting, Youssou N’Dour e Peter Gabriel) da luce al lavoro Through The Passage (edito da WPM e Compi Media) che riflette, accanto ad una nuova evoluzione sonora, anche i suoi principali interessi antropologici ed esoterici legati alle mitologie dei "popoli del mare", alla sapienza dei Celti e al mito di Atlantide, sullo sfondo di uno sguardo che annuncia l'arrivo di una nuova epoca. “L’album Through The Passage – specificano le note di copertina – rappresenta il passaggio interiore che mi ha sempre affascinato in modo particolare. È il passaggio oltre la soglia terrestre per entrare nel regno siderale del sogno, il territorio magico e misterioso dove il nostro cuore si libera da tutti gli oneri e le preoccupazioni del lungo e faticoso cammino della nostra vita quotidiana. Ed una volta superato il passaggio si arriva a vedere e volare nella visione di questo nuovo orizzonte…di questa nuova galassia”. Sul piano strettamente musicale il disco segna la compiuta maturità artistica non solo sul piano compositivo e tecnico (con l’introduzione anche dei FX pedals alle arpe) ma soprattutto nella maestria degli arrangiamenti. L’interesse di Brown a produrre il nuovo materiale nasce a registrazioni già effettuate secondo una ben precisa concezione orchestrale che inevitabilmente viene modificata in parte dai nuovi lavori di mixaggio. L’introduzione dei synth digitali, se da un lato conferisce un aspetto più “sintetico” al sound, tuttavia risulta decisamente equilibrato e non risulta mai invasivo; anzi, per certi aspetti creano un intelligente piattaforma, una base funzionale (quasi da onde fluttuanti) per gli slanci armonici e melodici dell’arpa che qui raggiunge notevoli confini d’espressività. Grande attenzione viene riservata all’uso delle voci con ben tre diverse cantanti di supporto (Anita Foerster, Mundina Moruniq e Alice Sondergaard), che suggeriscono per tutta la durata dell’album un continuo viaggio verso una altra dimensione di coscienza. Come per le voci, anche la base ritmica è altamente curata e segna una svolta decisiva (con un uso più corposo del drum programming) verso atmosfere-trance dalle maggiori implicazioni ipnotiche. Il sound sperimentale che ne fuoriesce è efficace e coinvolgente (probabilemente anche più diretto e fruibile in alcune parti), con intuizioni e soluzioni originali che possono trovare al massimo qualche collegamento con un progetto come l’Afro Celt Sound System. Il tema iniziale di Cies è magico nel rievocare le atmosfere notturne della piccola isola galiziana, una melodia delicatissima che si pone a cavallo tra il devozionale sciamanico e il lullaby più incantato. Il connubio felice tra synth, arpe e voci si evince soprattutto da brani come Trance Ar Mor e Through The Passage mentre in Voyage Of Sherdan si evince al meglio anche un certo sperimentalismo linguistico, laddove Seki si cimenta in linguaggio quasi “ad hoc” che include elementi bretoni e vedici. Il punto più alto dell’arte di Seki è forse raggiunto in Mystery Of Dana dove all’overture epica del synth segue un giro spettrale d’arpa che sfocia in un intreccio barocco con viola da gamba (il solito Annibaldi) e voce di rara bellezza, mentre il finale è quasi da colonna sonora per un film fantastico con il vocalizzo delirante del piccolo Gwenael Seki. È qui che si consuma l’inno alla grande dea Dana, Madre della Terra e del Cielo, fonte prima d’ispirazione per i bardi d’ogni tempo. Le altre due perle del disco sono Celtic Etruria, giocata sull’asse tra un giro ciclico-ipnotico dell’arpa e dei synth dai toni più vellutati, e soprattutto l’inarrivabile Into The Spiral, altro momento creativo emblematico del disco che ripesca in versione decisamente acida e psichedelica il Raga Kirwani, sorretto dal sitar di Noçon, l’elettrica di Annibaldi e cesellato dalla declamazione finale di un antico inno di resurrezione egiziano da parte della egittologa Athon Veggi. Non ci sarebbe finale più perfetto se non fosse che in End Of This Time trova esplicitazione  il messaggio al “cambiamento necessario” che permea tutto il disco dall’inizio alla fine: “freedom is the air/freedom is this life/freedom is the space/freedom is your heart/At the end of the world/at the end of this time/the end of this world/just the end of this time!/the end of this world/only the end of this time”. 

 
  
Il nuovo Mystery Of Dana, rilasciato nell’aprile di questo anno, vuole proporre all’ascoltatore la concezione originale delle musiche poi riadattate in Through The Passage, nel tentativo di ridare alla luce quel primordiale temperamento che aveva soggiogato alla composizione dei brani. In effetti, pur non essendoci grandissimi sconvolgimenti dell’insieme, le tracce originali si lasciano apprezzare per una indole più marcatamente folk-rock-progressiva-spaziale, laddove il nuovo missaggio di Delmar Brown e l’introduzione dei synth aveva introdotto anche componenti di ambient-celtica-sperimentale dalle venature contemplative piu pop. Nonostante ciò la genialità artistica di Seki rimane ancorata ad un medesimo livello qualitativo anche se risulta palese che, all’interno del gioco di addizioni e sottrazioni in sede di mixaggio, alcune notevoli piccole variazioni vadino a cambiare la sostanza della materia sonora. Così nella prima versione del brano Through The Passage, ad esempio, si può ascoltare il suono del santoor di Simone Vitale, come più energici inserti di sax e harmonica elettrica. La viola da gamba di Annibaldi si presenta come valore aggiunto nel vecchio tape di Into the Spiral o ancora nella precoce Cies il flauto di Ruben Castro sembra essere più in evidenza e accresce un certo tono celestiale insieme alle campane tibetane.L'oceano, le scogliere del Finisterre galiziano e bretone e le relative leggende e memorie ancestrali sono invece la fonte ispiratrice primaria che plasma le composizioni del capolavoro Son Atlantel, edito da Coop Breizh nell'aprile 2013. Il lavoro, che ha ricevuto grandi lodi dalla critica specializzata, e un notevole riscontro di pubblico nel tour estivo 2013, nonché nel prestigioso scenario della 30° edizione del Rencontres Internationales De Harpes di Dinan, (con in rassegna il fior fiore dell’arpa mondiale con artisti come Ismael Ledesma, Gwenael Kerleo, Vincenzo Zitello, Dominig Bouchaud, Vanessa Gerkens, Mariannig Larch’Hanteg, Ralf Kleeman, Myrdhin etc.) è emblematico nel registrare l'attuale ricerca del musicista che ad un'ispirata vena compositiva accorpa una conoscenza profonda della tradizione dell'arpa bardica e delle musiche bretoni e di metrice celtica, nonché l'innovativa ricerca, che lo caratterizza da anni, nel trapiantare le strutture dei raga indiani nella pratica dell'arpa celtica. A ció va aggiunta una notevole esplorazione delle possibilità espressive sia nella tecnica arpistica, che negli arrangiamenti, che mira alla creazione di un nuovo suono e dona una grande varietà di colori nel sentiero dell'arpa celtica contemporanea...(continua).

 di Andrea Maria Simoniello


 


DISCOGRAFIA  2001 - 2014


 Fairylands - 2001


A Journey To Other Lands - 2005


 Arpe Del Sidhe - 2007


Through The Passage - 2010


Son Atlantel - 2013


Mystery Of Dana - 2014