venerdì 15 agosto 2014

Attraverso lo specchio : l'arte psichedelica dal mandala ai light shows

Voler sondare l’universo psichedelico nella completezza della sue diversificate manifestazioni risulta operazione complessa dal momento in cui assume la fisionomia di un delta tentacolare che sfocia in differenti correnti culturali ed ingloba, su un piano interdisciplinare, tutta una serie di variopinte sfumature che interessano non solo la dimensione prettamente artistica, ma anche quella politica, spirituale, religiosa, filosofica, sociale, letteraria e poetica, ed antropologica in generale (1). Infatti, come lucidamente argomenta Guarnaccia, tale universo riflette «vari segnali di una ricerca mistico-evoluzionista che ci accompagna sin dal neolitico e che, indomabile, procede contromano rispetto alla visione integralista, basata sul controllo sociale e sul dominio del pianeta. [...] I fili di una cospirazione sotterranea e mutagena che, nel corso del tempo, ha tentato incessantemente di armonizzare il sociale con il biologico» (2).
Dunque, se pur il periodo che va dal 1965 al 1967, risulta essere quello della maggiore esplosione, della splendida fioritura dell’idioma psichedelico, ciò non vuol dire che questo rientri in una prospettiva limitata agli anni Sessanta o in un mondo circoscritto all’area anglosassone. Al contrario, ci sarebbe da tessere una trama fitta di relazioni che in base ad un medesimo fine proposto, ovvero quello dell’espansione della coscienza e dell’approdo a suoi differenti ed alterarti stati, possa accomunare logicamente anche realtà apparentemente lontane come quelle dello sciamanesimo messicano, della pittura visionaria del 500 europeo, dell’architettura organica espressionista degli anni Venti o ancora del Taoismo e del cinema underground, etc.


In questa sede, attendendo di cimentarsi nello specifico della stagione psichedelica londinese e della sua straripante produzione grafica in qualità di soggetto privilegiato di tale lavoro, consci dell’ampiezza di un possibile infinito discorso antropologico a 360 gradi, preme soffermarsi su quelli che, dal punto di vista strettamente artistico-visivo, sono i parametri caratteristici del fenomeno psichedelico della metà dei Sessanta, che con i suoi dovuti rimandi storici, raggiunge il climax tra il 1966 e il 1967, per poi continuare con intensità alterne nei primi Settanta.
Innanzitutto c’è da stabilire, in relazione a ciò che si prefigurava intorno al discorso che associa l’utilizzo delle droghe alla creatività artistica, quale sia il nesso tra l’esperienza psichedelica indotta dalla droga del periodo, ovvero Lsd, e la nuova produzione artistica. Già si è asserito, parlando di un doppio binario di visioni, come un elevato coefficiente d’immaginazione visionaria, possa essere conquistata, nella pratica artistica, non solo attraverso l’uso di sostanze stupefacenti, ma anche grazie a metodologie che agiscono sull’inconscio o meditative che operano sullo spirito; e come l’assunzione di determinate sostanze non è sufficiente di per sé ad implicare un miglioramento dell’atto performativo, che tuttalpiù può registrarsi in soggetti con doti tecniche ed immaginative già notevoli e fuori dal comune.
Da questo punto di vista però è imprescindibile il dover considerare la diretta ed effettiva responsabilità che la “rivelazione” della nuova esperienza psichedelica indotta dall’Lsd, ebbe nei confronti dell’apparizione di nuove forme artistiche.
Come sosteneva con forza Timothy Leary, tra i principali guru del nuovo culto per le potenzialità conoscitive e rivoluzionarie dell’Lsd, «Lsd cult has already wrought revolutionary changes in American culture. If you were to conduct a poll of the creative young musicians in this country, you’d find that at least 80 percent are using psychedelic drugs in a systematic way. And this new psychedelic style has produced not only a new rhythm in modern music but a new decor for our discotheques, a new form of film making, a new kinetic visual art, a new literature, and has begun to revise our philosophic and psychological thinking»(3).

 

Tuttavia, se da un lato sarebbe riduttivo considerare l’arte psichedelica del decennio come diretto prodotto dell’illuminazione provocata dall’Lsd, è sintomatico però considerarla nel suo tentativo di registrare e riflettere le fantastiche sensazioni e i fenomeni percepiti durante il viaggio, incantato ed onirico allo stesso tempo, da esso indotto. Nell’arte psichedelica c’è dunque un estremo desiderio di catturare i felici sentieri esplorativi che si perdono nella profondità della mente, allo stesso modo di come i Surrealisti cercano di riprodurre fedelmente nei loro dipinti i sogni e gli innumerevoli processi del loro inconscio(4). Ma accanto a questa operazione di restituzione dell’esperienza visionaria c’è anche la volontà di procurare una nuova serie di stimoli catalizzatrici per intensificare lo sprofondamento “nel sé” durante gli stati allucinogeni. L’idea artistica di base cioè, non è quella di un mera interiorizzazione e riproposizione di materia figurativa immaginaria, ma l’anelito verso una potenza espressiva e creativa in continua espansione.
«Psychedelic art – argomenta Grunenberg – not only recorded, documented, made visible and interpreted intoxicating drug experiences but also took on a role seldom assigned to creative products : to serve as a sensual catalyst in the evocation of fantastic, mind-expanding visions and to stimulate creative activity. The psychedelic experience is open to influence and direction and new stimuli are trans-formed in an unconscious process by which recorded images could be synthesized to result in a new creation»(5). Nella sua essenza l’arte psichedelica non è altro che un arte visionaria che si colloca in una tradizione immaginativa che dalla pittura di Bosch e Blake, pervade poi del suo spirito anche le correnti del Simbolismo, del Surrealismo o di certi aspetti della cosiddetta “Outsider Art” (è il caso, soprattutto, di Adolf Wolfli), ma che ingloba e sviluppa componenti tipiche dell’era storica in cui emerge.
«The Psychedelic style – sintetizza efficacemente ancora Grunenberg – was the result of a highly productive interaction between art, technology, politics, drug culture, music and many other influences, creating an extraordinary aesthetic exemplifying the spirit of liberation and freedom. Most important, however, was the environmental aspect of psychedelic art and culture, the expansion of form, colour, media and space in response to an expanding consciousness. The fusion of different artistic techniques in producing all-encompassing sensory spectacles was central to the new movement, culminating in a new hybrid art form variously labelled “intermedia”, multimedia or mixed media art. The borders between artistic techniques became amorphous and the most pertinent ideas emerged from the productive cross-pollination between disciplines, genres, media and cultures»(6).


Tipico della sua era, che la sintonizza dunque con un impostazione metodologica già specifica della contemporanea Pop Art, è innanzitutto il dialogo fecondo e l’osmosi che instaura con i più “effimeri” apparati della cultura popolare.
Tuttavia la trama dei rimandi figurativi a cui fa riferimento risulta amplissima e non sempre di facile codificazione. Questa sua fisionomia variegata che la mette in relazione con universi tra di essi lontani, emerge per esempio dal recupero della tipologia compositiva del mandala. Raffinato oggetto pittorico della tradizione orientale, utilizzato per facilitare le sessioni di meditazione presso le culture filosofiche indiane e tibetane, Buddismo ed Induismo in primis, il mandala può essere considerato come una vera e proprio pittura di “paesaggio interiore”.
L’oggetto della rappresentazione non è però l’universo fisico della natura, ma la mappa geografica dei diversi livelli energetici e di coscienza dell’uomo armonizzati con il cosmo. In altre parole, nei mandala, le strutture rigorose di forme geometriche e forme organiche colorate, corrispondono a livello spirituale, a quello che per lo spazio terrestre sono la disposizione morfologica di fiumi, monti, laghi o deserti.
L’intenso recupero negli anni Sessanta delle proprietà iconografiche del mandala, che sfrutta rigorosamente le sue qualità ottico-percettive, e già ampiamente riscontrato nelle nuove ricerche di animazione grafica del cinema d’avanguardia americano, è da considerarsi decisamente innovativo nel percorso storico dell’arte contemporanea occidentale, che fino a quel momento aveva dialogato con l’arte esotica soprattutto nei termini del dilagante fenomeno del Japonisme, che continua comunque vivace ad esercitare la sua influenza; come anche, nel caso della plastica Cubista, nello studio dei piani scultorei della tradizione africana.
Inoltre, influssi della tipologia mandalica sono riscontrabili anche nella sua veste messicana, ovvero quella che fa riferimento all'Arte Huichol (7) che è direttamente coinvolta nelle pratiche sciamaniche del rito del peyote.
Nell’era psichedelica tra i principali artefici di un recupero mandalico del fatto pittorico troviamo soprattutto Isaac Abrams che volge ad un nuovo linguaggio dopo aver sperimentato Lsd, ed è lo storico fondatore della Coda Gallery, la prima galleria d'arte psichedelica aperta a New York nel 1965.


Nei suoi primi lavori come All Things Are One Thing e The Golden City, The Serpents Dream del 1966 o Cosmic Orchird del 1967, Abrams combina sapientemente elementi floreali, biologici-molecolari e geometrici decorativi d'influenza indiana e tibetana per creare un arte di forte impatto mistico e meditativo.
La sua rilettura di precedenti intuizioni della pittura surrealista è innegabile (penso per esempio ad Unica Zurn) ma qui tutto è risolto in una nuova armonia cosmica e fantasmagorica, che lo rende precursore anche di futuri sviluppi della pittura psichedelica, che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, vedrà nuovo splendore grazie ad artisti visionari come Alex Grey, o come Robert Venosa e Pablo Amaringo nell'ambito della cosidetta Ayahuasca Art (8).
L'influsso di uno stile pittorico psichedelico coinvolge poi altri importanti artisti, come nella prima produzione figurativa di Adrian Piper, affermatasi al grande pubblico in territori decisamente concettuali. Prima ancora di essere affascinata dal lavoro di Sol Lewitt, la Piper si fa notare per i suoi LSD Paintings and Drawings del 1965-1967, in cui vengono trattati insieme elementi cubisti, espressionisti e op, che plasmono anche con linfa nuova il tema fiabesco di Alice in The Wonderland caro alla controcultura del tempo, come nei significativi Alice And The Pack Of Cards e The Mad Matter's Tea Party, dipinti entrambi nel 1966. C'è poi il caso già accennato di John McCracken che alla sua rigorosa ricerca minimalista affianca, sul finire degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, anche una intrigante realizzazione di mandala di sapore orientale. Emblematico, però, è il caso di Arlene Sklar-Weinstein che testimonia acutamente come l’esperienza psichedelica possa trasformare l’opera di un’artista. Profondamente colpita dal viaggio in Lsd, si mette a lavoro per rendere sulla tela il flusso di forme e lo spontaneo crearsi di arabeschi che aveva visto, come si evince dal suo celebre dipinto Between Heaven and Hell del 1966 .
In generale, come si vedrà più dettagliatamente nel repertorio grafico londinese, il vocabolario iconografico psichedelico attinge a piene mani non solo dal mondo dell’astratta ornamentazione orientale, ma riscopre anche il decorativismo neo-medievale del revival, dell’Art Nouveau e dell’epoca Edwardiana e Vittoriana.
Tuttavia si riscontra anche una vena figurativa più marcatamente realista nell’evocare l’esperienza lisergica nel caso emblematico di Mati Klarwein, pittore e grafico tedesco, famoso soprattutto nel contesto della “Cover Art” del disco, con i lavori celebri per Abraxas di Santana e per Live-Evil e Bitches Brew di Miles Davis.
In un lavoro esemplare come il suo tondo A grain of Sand del 1965, ad esempio, adopera una grammatica compositiva minuziosa che fonde elementi surrealisti con la cultura pop, dando luce ad un vortice di immagini stratificate con capacità miniaturistica che rimandano alla simultaneità rapida e fulminea della percezione psichedelica. L’immaginario surrealista di Klarwein sfocia poi anche nell’ambientale scatola di visioni del suo Aleph Sanctuary a cui lavora tra il 1963 e il 1971. La visione psichedelica ha un’estensione ambientale anche nel tempio psichedelico del Mandala di Allen Atwell del 1964, un unico e organico dipinto che copre le pareti e il soffitto di un’ampia stanza; mentre nell’ambito del design i progetti visionari di Verner Panton, come Phantasy Landscape, Visiona II, del 1970 , sembrano voler riprodurre le medesime atmosfere di un grande artista psichedelico come Ernst Fuchs, penso soprattutto a Job And The Judgment of Paris del 1966.



Tra tutte le componenti ed influenze artistiche che modellano l’universo psichedelico del decennio una riflessione di merito deve essere riservata, però, al fenomeno ad esso contemporaneo dell'Op Art.
Il linguaggio Op, che nelle figure emblematiche di Soto, Vasarely e Riley raggiunge un suo primo acume formale, affascina profondamente gli artisti psichedelici che tentono però di superare tanto il suo rigido paradigma geometrico quanto la limitazione nell’utilizzo del bianco e del nero, nonostante questo vincolo fosse, per certi effetti ottici, garante di risultati più incisivi, dinamici e drammatici.
Ciò che più attrae di questo linguaggio cinetico, che si prefissa di raggiungere il massimo riscontro percettivo attraverso la selezione di una semplice espressione grafica, è sicuramente il suo ampio repertorio di possibilità operative, suscettibili alla variazione e modulazione. L’introduzione dirompente del colore accompagna così la libera esplorazione di periodiche strutture dove cerchi si muovono in opposte direzioni, dove campi magnetici di linee fanno risuonare ritmi ipnotici, dove forme centrifughe e centripete si compenetrano e provocano distorsioni irregolari, disturbi retinali, movimenti apparenti che somministrati all’osservatore lasciano profondi segni irreversibili nella sua memoria.
Guardare alle possibilità dell'Op Art però, vuol dire anche rifarsi e ricollegarsi idealmente a tutte le esperienze precedenti, che nella medesima problematica, furono proprie delle avanguardie storiche. Infatti, è già nel Futurismo Italiano che si attuano pienamente le premesse per i futuri della ricerca Op-cinetica, e questo grazie alle precoci intuizioni di Balla; non già nella sua emblematica Lampada ad arco, ma nelle sue Compenetrazioni iridescenti del 1912-1913. Inoltre «with the orphist exploring abstract colour contrast – spiega Cyril Barrett – and the suprematist placing geometrical shapes flat on the canvas (not amorphous brushstrokes or washes or vague lines) we have by 1913 at least, the ingredients which were to go into the making of Op. Some of these ingredients are also to be found in the geometric abstractions of Neo-plasticism of Mondrian»(9). Dunque, bisogna considerare l’avvento maturo dell'Op Art come punto d’approdo di un complesso d’indagini progressive che abbracciano l’intera avventura dell’arte del XX secolo. Tanto le opere suprematiste di Malevich, quanto l’orfismo di Robert e Sonia Delaunay, del neoplasticismo di Mondrian o ancora di certo rayonism, come anche i film sperimentali di Léger e Prampolini, scrivono le prime pagine di un discorso che tra il 1920 e il 1930 sarà ulteriormente approfondito. E questo specialmente presso in Bauhaus, non solo con la serie delle “composizioni cromatiche” già illustrate precedentemente, ma anche con l’instancabile Itten che mette a punto numerosi esperimenti dagli effetti ottici.
Vanno poi sottolineati i contributi fondamentali tanto di Duchamp, con il suo Revolving Glass del 1920, il Rotary Demi-Sphere del 1925, i Rotoreliefs del 1935, nonché il suo pionersitico Anemic Cinema del 1926, quanto le opere seminali del Josef Albers degli anni Quaranta, tra cui gli importanti Graphic tectonics, Structural Constellations, Homage To The Square o Linear Optics.
Ora, se il linguaggio Op è per l’estetica visionaria dei Sixties il miglior viatico per riprodurre la distorsione della percezione e la fluidità d'immagine tipica dell'esperienza psichedelica, è lo specchio invece ad essere prescelto oggetto di purezza e devozione nell’edonismo senza confini ricercato dal movimento psichedelico.
Storicamente parlando, nello scorrere delle sue diversificate manifestazioni, l’intera vicenda dell’arte ha avuto spesso a che fare con le proprietà magiche dello specchio, al pari del vetro o del cristallo, che condividono entrambi qualità alchemiche di trasformazione e riflessione dell’immagine. Ciò è particolarmente evidente a partire dal XV e XVI secolo, quando con l’avvento del Rinascimento lo specchio inizia ad entrare in scena tanto come elemento iconografico all’interno dei dipinti, sia come strumento stesso per la realizzazione di sofisticati escamotage prospettici. Se Nel ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck lo specchio ha la funzione di dilatare lo spazio pittorico, ed in Parmigianino può giocare producendo curiosi deformazioni anatomiche, come nel Autoritratto entro uno specchio convesso, in Caravaggio è il coadiuvante prescelto per la composizione di certi dipinti. Tuttavia, più vicino all’estetica psichedelica e la sua relativa distorzione prospettica si colloca il misterioso fenomeno dell’anamorfosi, praticata anche da Leonardo, ma resa celebre sopratutto dalla pittura d’oltralpe tra XVI, XVII e XVIII secolo, che vanta il nome illustre di Erard Schon con alcune composizioni anamorfiche tra il 1535-1538, e dal più noto quadro I due ambasciatori di Hans Holbein il Giovane del 1533, con il teschio anamorfico raffigurato in primo piano. «L’anamorfosi – argomenta Jurgis Baltrusaitis - inverte gli elementi e i principi della naturalità prospettica: proietta le forme fuor di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato o riflesse in uno specchio particolare. Ne deriva un mondo in cui realtà e finzione finiscono per confondersi. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, una filosofia della realtà artificiosa. Le immagini ad un primo sguardo appaiono distorte, mostruose, indecifrabili, ma se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti particolari, si ricompongono, si rettificano, svelando figure a prima vista non percepibili. I visionari di ogni tempo hanno amato queste trasfigurazioni che rivelano il lato fantastico della natura. La rettifica operata dallo specchio, dove si vedono le forme esatte emergere dal caos, possiede anch’essa questo elemento soprannaturale: esse infatti ricompaiono non più su una superficie piana, ma entro una profondità che si rivela improvvisamente, insieme all’immagine, nel barbaglio dei riflessi metallici. L’immagine si anima, si muove, cambia al minimo spostamento degli occhi. Ruota in un regno fatato dove tutte le cose diventano presenti e intangibili allo stesso tempo»(10).



Nell’immaginario psichedelico lo specchio e le sue improvvise riflessioni svolgono un ruolo del tutto simile a quello che per il visionario del passato era rivestito dall’immagine anamorfica, ed è sempre visto come una membrana permeabile che filtra il reale attraverso l’inconscio, un portale d’accesso per nuovi mondi incantati e garante di rinnovata trascendenza spirituale.
Una trascendenza che, per la sua natura mistico-cosmica, è facilmente riscontrabile sul piano filosofico nell’arte Europea, non solo scomodando l’intervento esemplificativo delle vetrate nelle antiche cattedrali gotiche tralucenti di materia luminosa impalpabile, ma considerando quanti artisti hanno, tra Ottocento e Novecento, creduto nelle qualità terapeutiche e divinatorie del cristallo e del vetro, custodi delle più ardite allegorie e simbologie; e ciò a partire dall’illustrazione fiabesca della nuova narrativa fantastica europea, dalle visioni utopiche di Wenzel Hablik e Bruno Taut e dalla “poesia della trasparenza” di Paul Scheerbart.
L’artista che meglio comprende gli sviluppi artistici possibili delle leggi ottiche insite nello specchio è Ira Cohen che sfrutta la superficie riflessiva del mylar (polietilene tereftalato) per ottenere immagini di strabiliante impressione liquida e vaporosità rarefatta. Cohen crea la sua Mylar Chamber a New York nel 1967, una scatola spaziale delineata dai mylar in qualità di specchi flessibili e trasparenti, all’interno della quale filma e fotografa vari personaggi tra cui il cineasta Jack Smith e alcuni volti noti della scena rock psichedelica tra cui Jimi Hendrix, Noel Redding ed i componenti degli Spirit per i quali curerà poi le immagini di copertina per il bellissimo Twelve Dreams of Dr. Sardonicus del 1970. Il poeta e cineasta americano, che durante le riprese nella Mylar Chamber utilizza inoltre un doppio prisma per frammentare ulteriormente le riflessioni, darà poi vita al suo capolavoro indiscusso Invasion of Thunderbolt Pagoda del 1968, musicato dal percussionista Angus Maclise e probabilmente da considerarsi l’esperimento artistico più riuscito dei Sessanta nella sua volontà di riprodurre fedelmente il flusso vibratorio e sfumato tipico dell’esperienza psichedelica. «In the film – osserva Iles – the fluid reflections of the mylar-lined room extend the filmic space into a psychedelic infinity chamber, within which Smith and others float around like disembolied ghosts. Maclise’s hypnotic soundtrack, influenced by Eastern music and a meditative tonality, takes the viewer further into a melting space, demonstrating the fusion of music and image that became the hallmark of the psychedelic environment. In all the experiments with mirrored surfaces, the fragmentation of the image through prisms both mimicked and heightened the hallucinogenic experience»(11).
Vicine alle realizzazioni di Cohen vi sono poi i lavori del fotografo Arnie Hendin che era solito porre tre specchi di fronte all’obiettivo di due proiettori per rompere l’immagine in multiple sequenze colorate, come anche quelli di Yayoi Kusama che già nel 1965 allestisce una sua prima Infinity Mirrored Room che sarà poi un topos della sua più recente attività.
Le mirabilia dello specchio sono tutte concentrate nel caleidoscopio, inventato nel 1816 dallo scozzese David Brewster, autore poi di un Treatise on the kaleidoscope del 1819. Strumento dal forte impatto ludico, il caleidoscopio diviene molto comune in America a partire dal 1870 quando Charles Bush inizia a progettare più sofisticati caleidoscopi con specchi cilindrici riflettenti una serie di lastre di vetro intercambiabili e riempite con colori liquidi e rotanti e con forme di diversa decorazione. Verso la fine degli anni Cinquanta tale strumento, da piccolo intrattenimento d’uso domestico è trasformato in una più ampia e coinvolgente ambientazione, della quale i futuri sviluppi nella metà dei Sessanta saranno logicamente consequenziali.
Infatti, la tendenza alla multimedialità del linguaggio psichedelico diventa effettiva durante le esibizioni concertistiche e con l’avvento dei light-show funzionali al potenziamento del messaggio veicolato dalla performance musicale.
Nelle ambientazioni psichedeliche, elementi caleidoscopici, mandalici, luci radianti e proiezioni di composizioni organiche cromatiche di derivazione Op, si fondono dunque con forza per proporre la totalità di un rapimento psico-fisico. In altre parole il light-show è una proposta di arte totale, ed in quanto tale la summa massima dell’arte psichedelica. «Il tipico repertorio – argomenta Walker – di immagini offerto da un light show era costituito da forme ameboide riccamente colorate che si dissolvevano e riformavano come in un sogno. Tale effetto era prodotto mediante speciali diapositive contenenti acqua e oli che reagivano al calore del proiettore. Queste immagini astratte non geometriche servivano da ideale accompagnamento visivo ai lunghi assoli strumentali dei musicisti e ai sogni indotti dall'erba e dall'Lsd»(12).
Nel corso del XX secolo, le ricerche volte a stabilire una sintesi dialettica tra testo musicale e immagine, tra prassi compositiva musicale e strutturazione pittorica, tra armonie timbriche e accordi cromatici, hanno sempre esercitato un fascino particolare nel pensiero dei pittori. Dalle indagini di Kandinskij in relazione alla dodecafonia schonberghiana al Manifesto della Pittura dei suoni, rumori e odori di Carrà, alle comparazioni tra l’opera pittorica di Mondrian con Webern, fino ad arrivare alle esperienze informali di Dubuffett o Mathieu, le proposizioni per una possibile comparazione tra due livelli comunicativi e sensoriali differenti, si sono susseguite secondo precise disposizioni speculative e realizzazioni formali(12). Nell'ambito dei light show per esempio, il tipo di figurazione astratta utilizzata per ottenere la fusione suono-immagine, può rimandare alle esperienze pittoriche dell’informale europeo e dell’espressionismo astratto americano. Voglio dire che le stesse proprietà ipnotiche di certo linguaggio pittorico informale, istintivo e gestuale, nel caso della performance concertistica, risultano essere funzionali nell’accompagnamento di flussi musicali dalla struttura compositiva aperta ed aleatoria, volta all’improvvisazione, tipica del nascente free-rock psichedelico della metà degli anni Sessanta.



Così nelle proliferazioni cromatiche di queste nuove ambientazioni non è difficile scorgere esplosioni liquide che ricordano un Wols oppure sequenze plastiche organiche che assomigliano alla poetica di un Gorky. A ben vedere, nell’orgiastico trionfo del colore dello spettacolo luminoso-psichedelico sembra quasi attuarsi completamente quel sogno a lungo perseguito da Pollock di diffondere a tutto l’ambiente la qualità di un immagine pittorica infinita; prerogativa che dalla fine degli anni Cinquanta era comunque stata superata criticamente dall’avvento degli happenings grazie soprattutto al lavorio teorico di Allan Kaprow. È quest’ultimo che grazie a Cage, acquisisce il concetto di caso come meccanismo compositivo; e, nonostante il modello illustrato da Cage fosse quello di una partitura che elencava tanto gli oggetti da usare in azioni rumorose quanto la durata di ognuno di queste azioni, con l'aggiunta della dimensione spaziale, del movimento e della disposizione dei partecipanti, Kaprow accentua la dimensione teatrale degli eventi e il loro legame con la tradizione dadaista. Da queste premesse teoriche nascono i primi happening pubblici (il ricordo va ai 18 happenings in 6 parti del 1959) dove suoni, rumori, luci si fondeno ad una proliferazione di gesti, azioni, dove materiali e oggetti disparati possono essere utilizzati o distrutti nel corso di una serie di atti non sequenziali e che possono essere apparentemente estranei a qualsiasi principio di coerenza. Come vedremo meglio nel capitolo seguente, l’importanza che presso le controculture ha la ridefinizione delle arti performative sempre più proiettate al superamento dei confini tra i generi artistici, dimostra come la stessa forma dell’happening ed in generale ogni forma di spettacolo che puntasse alla teatralizzazione multimediale degli eventi inizia ad esercitare un fascino sempre più grande nei confronti del pubblico o dei musicisti stessi.
È proprio la forma libera e priva di una trama lineare, tipica dell’happening, ad interessare gli artisti psichedelici. In questo modo l’ambientazione “pirotecnica” dei light-show diventa spesso teatro di caotici happenings dove danzatori, artisti di body paintings, palloni e altri e oggetti volanti si fondono con il pubblico e le colorate sequenze luminose, come il famoso Self-Obliteration di Yayoi Kusama, svoltosi al Fillmore East di New York il 6 e il 7 dicembre 1968. La scelta di un linguaggio free-form, di un estetica imprevedibile e aperta a multiple illuminanti rivelazioni è da ricercare nella profondità del messaggio da veicolare. «The pervasive formlessness of psychedelia – scrive Grunenberg – functioned as a direct visualitation of the spirit of individuality and liberation and was perceived as clearly opposing the constraints of rigid social order, the repressive authority of conventional morality and the regulative mechanisms of the dominant capitalist system at the height of its development80»(13).
L’anima trasgressiva dell’arte psichedelica si manifesta quindi con forza nell’elaborazione di una omnicomprensiva ambientazione dove proiezioni, film e video, flickering light, giochi di luce colorata realizzano la più completa sinestesia, dove il corpo del partecipante percepisce di diventare una cosa solo con gli altri, con i suoni e lo spazio architettonico circostante. Sono labirinti profondi ed inestricabili per la mente come quelli descritti nell’Aleph di Borges, con riflessioni e rifrazioni di sostanza luminosa che aboliscono i confini tra le superfici, e il corpo si trova catapultato in un vortice serpentino dove ritmi ipnotici di linee e forme organiche amebe e vegetali, vuoi di derivazione Rococò, Art Nouveau o Simbolista, proiettano spiritualmente verso un ignoto stato di amplificata liberazione sociale, erotica e psico-creativa. Tuttavia, ancora prima che il fenomeno del light-show divenisse, alla metà degli anni Sessanta, strettamente legato alle esibizioni rock psichedeliche, un primo approccio di queste esperienze multimediali viene condotto a San Francisco durante gli anni Cinquanta, durante spasmodiche jam sessions jazzistiche e nel corso di readings poetici dell'eversiva scena Beat. Tra i precursori che iniziano a codificare il cosiddetto “wet show process”, ovvero la libera miscela di tinture e colori liquidi all'interno di sottili piatti di vetro roteanti, troviamo già nel 1952 Seymour Locks, che sperimenta con diapositive riempite di oli ed inchiostri colorati poste poi davanti al proiettore per successive manipolazioni. Appare abbastanza logico, perciò, che quando la controcultura della West Coast americana fiorisce nel pieno degli anni Sessanta, la sperimentazione con proiezioni, film e nuove apparecchiature meccaniche diviene una costante fondamentale per l’intera comunità artistica alternativa, che allargherà il raggio d’azione anche alle rappresentazioni teatrali e performances di gruppi radicali come l'Open Theatre ed il Living Theatre. A partire dal 1966 nascono così numerosi collettivi e compagnie d’artisti che nell’ambito dei light-show maturano un loro personale stile identificativo, legando spesso questo stile al nome di una band in particolare. E ci si distacca facilmente anche dalla pura animazione astratta, introducendo nuove tecniche per la proiezione di diapositive illustrative delle canzoni, di filmati d’attualità o danzatori in visibilio, come anche installando complessi circuiti televisivi chiusi o visionando più pellicole su multipli schermi. Tra i pionieri del genere troviamo il collettivo sperimentale Usco, Glenn McKay con il suo Head Light, e soprattutto Bill Ham con il suo Light Sound Dimension, attivo già dal 1965 (fig.15). In un medesimo ambito arte multimediale si collocano anche le speriementazioni di alcuni cineasti come Jackie Cassen e Rudi Stern, Don Snyder, Francis Lee e Jud Yalkut.
L'estensione del fenomeno si registra poi man mano che sorgono nuovi luoghi culto della nuova scena musicale, a partire dall'inaugurazione del Fillmore East a New York, che diviene il quartier generale del fantasmagorico Joshua Light Show.
Il suo sofisticato e raffinato assortimento tecnico include il wet show, dischi rotanti colorati, lumia effects, films, disco balls, circuiti video e luci colorate stroboscopiche e caleidoscopiche; ed inoltre utilizza retro-proiezioni per aumentare l’intensità dei contrasti cromatici e la persistenza illusionistica dell'immagine nello spazio.
Altra figura di riferimento è poi quella del nomade Ken Kesey che, con i suoi Merry Prankster, è tra i principali divulgatori dell’Lsd nei suoi celebri Acid Tests tra il 1965 e il 1966. A differenza di Leary, che pur esercitando un forte impatto sulla controcultura, sublima la scoperta lisergica nel piccolo alveolo di Millbrook dove la sperimentazione dell’Lsd viene condotta con maggiore sensibilità scientifica nella pace nirvanica di un ambiente culturale raffinato e devoto alle filosofie orientali, lo spirito guerriero di Kesey è pragmaticamente populista nella sua volontà di diffondere senza riserve la rivelazione apportata da un sostanza, che se già sperimentata nei circoli artistici e scientifici degli anni Cinquanta, nonché presente nel noto piano Mk-Ultra della Cia americana per le sue ricerche sul lavaggio del cervello, solo alla metà degli anni Sessanta stava convertendo in massa nuovi adepti, in virtù anche della sua annunciata illegalità a partire dal 1966. Entrambi però sono accomunati dal credo inamovibile che un radicale cambiamento del sistema politico e sociale era possibile solo attraverso un significativo e diffuso cambiamento di coscienza. Durante i deliranti happenings degli Acid Tests, i magazzini occupati o affittati per l’occasioni diventano perciò teatro di strabilianti light-show con ampio dispiegamento di attrezzature tecniche, funzionali alla buona riuscita del “rituale”e della conversione. D’altronde, la grande fortuna che lo spettacolo psichedelico ha nella sua era di massimo splendore è testimoniata anche dall’influenza che esercita sugli artisti contemporanei legati ad altri filoni di ricerca. È il caso soprattutto di Andy Warhol che inaugura il suo Exploding Plastic Inevitable Show nell’aprile del 1966 al Polish Club Dom di New York. Da sempre sensibile ai differenti medium artistici, Warhol comprende le possibilità espressive dei nascenti light-show, ma il tono complessivo dello scenario da lui allestito per le performance dei Velvet Underground, con proiezioni di suoi film, luci stroboscopiche e le danze macabre del performer Malanga, è sostanzialmente diverso dal tono mistico e paradisiaco delle ambientazioni in voga a San Francisco. Evita così le forme amorfe e amebe care all’estetica hippie, inserendo piuttosto gigantografie, sequenze geometriche Op e riflessi ottenuti con il disco ball. Il risultato volge così più verso il kitch, ed un notevole grado di edonismo ed esibizionismo criticano esplicitamente e brutalmente ogni forma di spiritualismo religioso. Tuttavia lo stile californiano esercita comunque un certo impatto su Warhol, se è vero che in The Chelsea Girl del 1966 appaiano notevoli sequenze psichedeliche d’intensa cromaticità; come del resto è ipotizzabile un parallelo tra l’estensione della durata dell’immagine ed il ritmo stabile ed ipnotico di certi film di Warhol, con l’alterata percezione di spazio e tempo propri di uno stato allucinatorio. Se il caso di Warhol non è isolato, e possiamo citare anche Otto Piene che volge ad un linguaggio psichedelico insieme allo Zero Group, l’intensità della diffusione di questo fenomeno multimediale è quantificabile anche grazie all’apertura di nuovi nightclubs, tra cui i celebri “Electric Circus” e “Cerebrum” di New York, che al pari delle roccaforti del nuovo sound acido stavano seriamente rompendo le barriere tra il mondo dell’arte e dell’intrattenimento, operando per la conquista di una nuova emotività collettiva.
«Anche le discoteche – argomentano Masters e Houston – si propongono lo scopo di modificare le condizioni dei clienti e di ottenere la loro totale partecipazione nell’ambiente più favorevole. Il metodo è quello di un’aggressione ai sensi. Luci colorate fluttuano, ammiccano e sfrecciano, si odono dei suoni, e la mente è inondata da sensazioni che possono manifestarsi sulla superficie del corpo tangibili vibrazioni. L’esperienza è soprattutto sensoriale – visiva, auditiva, tattile, cinetica – e le catalessi oculari indicano che alcuni ballerini sono entrati in uno stato simile al trance: l’elettronica produce gli effetti dei rituali primitivi e delle riunioni di certe sette protestanti come quella degli Holy Rollers»(14).
Sta di fatto che il virus psichedelico a partire dal 1967 è contagioso a livello globale con centri artistici di rilievo non solo a San Francisco e New York, ma anche in Europa, non solo nella dorata Londra “swinging”, ma anche a Parigi, Berlino, Dusseldorf, con il suo storico bar Creamcheese aperto da Hans-Joachim e Bim Reinart, come anche Francoforte, Vienna o Copenaghen.


di Andrea Maria Simoniello

tratto dalla tesi di Laurea

"Sogni e allucinazioni: la grafica psichedelica a Londra negli anni Sessanta"

(2013)



Note Bibliografiche:

1)In merito si veda Robertson Davies, What do you see in the mirror? A footnote to the psychedelic Revolution, Agincourt, The Book Society of Canada Limited, 1970; The Psychedelic Era: From Huxley To Lennon, in Peter Haining, The hashish club: an anthology of drug literature, P.Owen, London, 1975; Enzo Gentile, Matteo Guarnaccia, Odoardo Semellini (a cura di), Kaleidoscope 1964-1974.Suoni e visioni della psichedelia, catalogo della mostra tenutasi a Carpi nel 2004, Comune, Carpi, 2004; Mario Arturo Iannaccone,Rivoluzione psichedelica : la CIA, gli hippies, gli psichiatri e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta,Sugarco, Milano, 2008. 
2) Matteo Guarnaccia, Psichedelica, Eroi Situazioni Arte e Letteratura, Shake, Milano, 2010, pg 7.
3)Timothy Leary, Playboy Interview, 1966. In merito si vedano anche T.Leary, Ralph Metzner, Richard
Alpert, The psychedelic experience: a manual based on the Tibetan book of the dead, University Books, New
Hyde Parks 1964, trad.it.di Ugo Carrega, L’esperienza psichedelica, Sugar, Milano, 1964;
T.Leary,ThePolitics of Ecstasy, Putnam’s Sons, New York, 1968.
4)Tuttavia l’arte psichedelica diverge da quella dei surrealisti sotto alcuni aspetti e alla luce dell’identificazione di alcuni specifici valori. A tal proposito Masters e Houston scrivono: « Il surrealismo era esclusivo; l’arte psichedelica è inclusiva: essa non esclude il mondo esterno ma piuttosto afferma il valore dell’interiorità come coscienza complementare. Lo scopo dell’esperienza psichedelica è quello di espandere la coscienza in modo che possa abbracciare molto di più. A differenza del surrealismo, l’arte psichedelica pone il dogma fondamentale dell’armonia spirituale con l’universo. L’arte psichedelica non è in posizione d’antagonismo rispetto all’arte religiosa del passato e non presenta affinità con l’arte demoniaca o eretica come tale. È più matura del surrealismo nel suo rifiuto di dare lo stesso rilievo al bello ed al grotetsco. Non è attratta dalla pazzia o dalle allucinazioni della pazzia.[…] Mentre il surrealismo è magico, l’arte psichedelica ha verso la mente un atteggiamento scientifico. È anche un’arte religiosa e mistica […] Barry Schwartz chiama l’arte psichedelica “il surrealismo di un’era tecnologica”. Ciò appare vero se si pensa che gli psichedelici, insieme con la tecnologia, hanno dato una nuova dimensione a gran parte della problematica dei surrealisti», Robert E.L. Masters, Jean Houston, op.cit., pp 97-98.
5) «L'arte psichedelica non solo registra, documenta, rende visibile l'eccitante esperienza della droga ma
svolge un ruolo raramente assegnato ai prodotti creativi: essa funge da catalizzatore sensoriale
nell'evocazione del fantastico, espandendo le visioni della mente e stimolando l'attività creativa. L'esperienza
psichedelica è aperta per influenzare e direzionare e nuovi stimoli sono trasformati in un inconscio processo
grazie al quale le immagini registrate possono essere sintetizzate per ottenere una nuova
creazione», Christopher Grunenberg, Lsd Art : The Birth of A Psychedelic Style, in op.cit, p.18.
6) «Lo stile psichedelico fu il risultato di un intensa interazione tra arte, tecnologia, politica, cultura delle droghe, musica e tante altre influenze, volte a creare una straordinaria estetica esemplificativa dello spirito di liberazione e libertà. Ancora più importante, tuttavia, fu l'aspetto ambientale dell'arte e della cultura psichedelica, l'espansione della forma, dei colori, dei media e dello spazio nell'ottica dell'espansione della coscienza. La fusione delle differenti tecniche artistiche in vista della creazione di un omnicomprensivo spettacolo sensoriale fu centrale per il nuovo moviemnto, culminante in un nuova forma d'arte ibrida variamente chiamata "intermedia" multimedia o mixed media art. I confini tra le tecniche artistiche divennero amorfe e le più audaci idee emersero dal produttivo incrocio tra discipline, generi, medium e culture»,
Christopher Grunenberg, in op.cit, p.7.
7) L'arte tradizionale Huichol trova la sua massima espressione nei quadri chiamati “nierika” nella lingua uto
Azteca. Il termine, spesso impropriamente tradotto come "volto del mondo", ha un significato piuttosto
vasto, che riflette più sovrapposizioni esoteriche. Vuole allora significare il volto, l'apparenza delle divinità,
ma sta anche a designare il “passaggio”, “lo specchio”, mediante il quale gli Huicholes raggiungono la
dimensione visionaria della realtà mitica atemporale, dove gli uomini possono dialogare con gli dei, con le piante e con gli animali. Quindi nierika significa anche “visione”: la visione prodotta dal sogno o dal sacro
cactus, il peyote e ispirata dai miti ancestrali. In merito si veda anche Kathleen Berrin (a cura di), Art of the
Huichol Indians
, catalogo della mostra tenutasi a Chicago, New York e San Francisco nel 1978-1980, Fine
Artes Museums of San Francisco:Harry N.Abrams, New York, 1978.
8) Analogamente all’Arte Huichol, la cui figurazione è strettamente legata alla simbologia relativa ai rituali
indiani del peyote, per Ayahuasca Art s’intende tutta una produzione pittorica dai toni decisamente visionari
relativa all’esperienza di artisti che cercano di restituire le potenti visioni provocate dal rito sciamanico della
Ayahuasca. In merito si veda anche Massimiliano Geraci, Federica Timeto (a cura di), True visions: the art of
Ernst Fuchs, Alex Grey, Allyson Grey, Matteo Guarnaccia, Martina Hoffmann, Mati Klarwein, Roberto
Venosa
, Betty Books, Bologna, 2006.
9) «con l'astratta esplorazione orfista di contrasti di colore e la disposizione suprematista di forme geometriche piane sulla tela (non amorfe pennellate o linee contorte) noi abbiamo dal 1913 almeno, gli ingredienti che servirono nella realizzazione dell'Op. Alcuni di questi ingredienti possono essere ricercati anche nelle
astrazioni geometriche del Neo-plasticismo di Mondrian», Cyril Barrett, Op Art, Studio Vista, London, 1970,p.22
10) Jurgis Baltrusaitis, Anamorfosi, o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Adelphi, Milano, 1978, p.10
11) «Nel film i fluidi riflessi della stanza delineata con i mylar estendono lo spazio filmico nell'infinità di una
camera psichedelica, con la quale Smith e gli altri fluttuanti sembrano fantasmi senza corpo.L'ipnotica
colonna sonora di Maclise, influenzata dalla musica orientale e da una tonalità meditativa, proietta lo
spettatore in uno spazio fondente, dimostrando una fusione d'immagine e musica che diviene il punto più alto
dell'ambientazione psichedelica. In tutti gli esperimenti con le superfici a specchio, la frammentazione
dell'immagine attraverso i prismi imitano e intensificano l'esperienza allucinogena» Chrissie Iles, Liquid
Dreams
, in Christopher Grunenberg (a cura di), op.cit, p.71
12) John Walker, Cross-overs.Art into pop/pop into art, Methuen, London;New York, 1987, trad. it di Marco
Farano, L’immagine pop: musica e arti visive da Andy Warhol alla realtà visuale, EDT, Torino, 1994, p.68.
79 Per un approfondimento sul rapporto musica e immagine cfr. Guido M.Gatti (a cura di), Quaderni della
Rassegna musicale. Musica e arti figurative
, Einaudi, Torino, 1968.
13) Christopher Grunenberg, op.cit., p.63
14) Robert E.L. Masters, Jean Houston, op.cit., p.86.

Nessun commento:

Posta un commento