Nel corso degli anni ’60 il jazz
vide continuamente ampliati i propri orizzonti espressivi, maturò una
tendenza che lo portava a rompere con facilità i propri confini
linguistici, quasi che un vorticoso processo inarrestabile giungeva
sempre a proporre qualcosa di diverso a ciò che si era fatto
immediatamente prima…Sarebbe veramente inutile (e presuntuoso)
cercare di stabilire anche delle pur minime coordinate che possano
anche lucidamente illustrare il vento perpetuo del cambiamento di
quegli anni, che interessò tanto il filone americano che quello
europeo. Appare chiaro però che tra due poli ideali come Free Jazz di Ornette Coleman del 1960 e Message To our Folks dell'Art Ensemble Of Chicago del 1969, con il rivoluzionario "Rock Out", la cultura musicale afro-americana giunse a qualcosa di veramente nuovo e secondo un inedito slancio radicale. Di certo il jazz
d’allora era qualcosa di “vivo”, non come tanto jazz d’oggi, “morto”
tra le mura di tante accademie dove i "maestri-grandi-musicisti" sono
spesso i primi responsabili di una inevitabile standardizzazione,
sintomo della chiusura del jazz in
una fruizione di “elité” non aperta ad altre dimensioni sonore…Di
certo nell’epoca dell’esplosione delle controculture giovanili e delle
nuove musiche d’ambito rock, il jazz
rappresentava un referente"spirituale" importante per qualsiasi nuovo
giovane musicista…Restava "vivo”…perché non era tanto visto come
qualcosa “d’assoluto”…ma una “possibilità” che potesse dialogare in
modo fecondo con altre realtà, contesti ed idee musicali…
Il maggior ed immediato effetto di ciò fu la nascita del jazz-rock di cui molti vedono la nascita in Bitches Brew
di Davis nel 1970. Ma sarebbe più coerente parlare di Miles come il
codificatore finale, per quanto geniale, di soluzioni apparse già
precedentemente, ad esempio nell'ambito dello spiritual-jazz (si ricordi la pietra miliare Eternal Rhythm di Don Cherry del 1968)…ma "tracce" di jazz si trovavano ovunque…dal progressive…alla psichedelia…al folk visionario
d’approccio più naturalistico. Non stupisce dunque che all’interno di
un ampio discorso sull’incontro tra musiche occidentali e musiche
orientali si possa parlare anche di dialogo tra jazz e sonorità indiane, secondo un fecondo rituale di reciproco scambio.
Il 1967 fu fondamentale per l’esplosione in Europa dello stile "flower power" e della sua relativa cultura psichedelica venata di "orientalismo", che ebbe come polo principale la Londra swinging, scenario in quell’anno prima del "14th Hour Technicolour Dream" in aprile…e poi del convegno “The Dialetics of Liberation”
che si svolse tra il 15 e il 30 luglio, con la partecipazione dei vari
Marcuse, Goldman, Sweezy e molti altri rappresentanti del movimento di
contestazione, poeti "beat" in primis. Ma il 1967 vide anche la nascita dell’importante "Montreux Jazz Festival" destinato poi a diventare "tempio" di tante performances
storiche. Alla sua prima il festival fu onorato dal quartetto del
sassofonista Charles Llyod che comprendeva i giovani Keith Jarrett,
Jack Dejonette e Cecil Mcbee…e fu animato anche da una sorta di
competizione tra gruppi jazz emergenti. Tra questi vi doveva essere
anche il trio free-jazz di Irene Schweizer che vantava Mani Neumeier alla batteria e Uli Trepte al basso, futuri componenti dei tedeschi e “krauti” Guru Guru. Nell’ottobre dello stesso anno vide le stampe Jazz Meets India, in collaborazione con il trio di Dewan Motihar , Manfred Schoof alla tromba e Barney Wilen al sax tenore e soprano.
Prima di allora l’incontro tra jazz e musica indiana aveva significato soprattutto il percorso del più mistico Coltrane…Un brano come "India" nell’album Impressions del
1963 dimostrava già, in maniera più intima ed interiorizzata,
l’assorbimento della lezione orientale, riproponendo i tradizionali
termini del rapporto “donna-uomo” dei raga con sitar e tabla, nelle
vesti di un incalzante flusso giocato sul minimalismo percussivo degli
accenti di Elvin Jones e le traiettorie mantriche di Eric Dolphy al
clarinetto basso e dello stesso John ai sax. In ambito jazz sarà poi la moglie Alice a segnare i più affascinanti capitoli di quest’incontro…prima con Journey in Satchidananda del 1970 e poi con Elements del
1973 in compagnia di Joe Henderson e Charlie Haden…senza tralasciare
le collaborazioni che John “Mahavishnu” Maclaughlin avrà con L.Shankar
nel repertorio proposto col progetto Shakti.
Considerando queste esperienze e trascendendo i medesimi confini del jazz,
appare chiaro come questi progetti si collocavano ben aldilà delle
mode del momento…esprimevano una capacità di rielaborazione di
repertori lontani con una profondità che rendevano banali alcune
operazioni di quell’epoca…pensando soprattutto allo sterile “utilizzo”
delle sonorità indiane da parte dei Beatles, dopo il tanto
“pubblicizzato” viaggio in India con Donovan e Mia Farrow.
Non è questo invece il caso della pianista svizzera Irene Schweizer, nome illustre della "European Free Improvisation", che a quel tempo aveva già sublimato le proprie influenze (dal free-jazz
di Cecil Taylor e di Ornette Coleman alla “spola” di musicisti
sudafricani come Dollar Brand e Louis Moholo giunti in Inghilterra) in
uno stile personale che la consacrerà grande performer della scena improvvisativa internazionale.*
L’album Jazz Meets India
è forse una tappa marginale, poco ricordata della sua carriera, ma
nell’ambito di quell’”ampio discorso” sopracitato rappresenta
sicuramente un esempio calzante per spessore ed armonia di contenuti.
L’apertura raga in "Sun Love"
è solo un classico vestibolo per il viandante che si appresta a
compiere questo lungo viaggio verso le terre di Krishna e Shiva…la
tamboura è un rassicurante coro di voci impalpabili…ma presto
torrenziali piogge sgorgano dal piano…sono delicate ed incisive allo
stesso tempo…è un tunnel senza fine con i richiami dei re occidentali
suonatori dei fiati che rincorrono la regina del Sitar …non è
buio…siamo folgorati da un pendolo di luci ora zenitali ora
equinoziali… possiamo ben vedere ciò che accade…immaginare una danza di
ninfee dell’est in melme d’arazzi perlati, che con ritmo pacato ma
dionisiaco apre le porte verso due altre rivelazioni…durante "Yaad" siamo in vasche profumate di sandalo e lotus…mentre in "Brigach And Ganges"
l’amore possibile tra due fiumi lontani genera un terremoto emozionale
ed erotico…tuttavia per il nomade psicotropo c’è un lieto fine…sul
delta tentacolare costruisce il suo eremo personale in una
grotta…meditando sull’esperienza vissuta…conducendo il pensiero tra le
fessure di un infinito cretto naturale.
Troviamo
qui, accanto all’anima estemporanea della Schweizer il contributo
essenziale del trio di Dewan Motihar, coinvolto spesso in fusioni del
genere…ma ciò che stupisce di quest’ascolto “quintessenziale” è
soprattutto la presenza di Neumeier, cerimoniere in estasi di grooves metallici, e delllo stesso Trepte, protagonisti di battaglie radicalmente diverse con i Guru Guru.
Elemento
che mostra ancora una volta la disponibilità e la versalità di certi
musicisti…non che oggi non ce ne siano di validi…ma a cambiare sono le
"estetiche e sensibilità dominanti" e a provocare dolore dovrebbe
essere una ferita…la lucida consapevolezza della “perdita” dello
spirito di quell’epoca…o magari la gioia per una sua nascosta e
marginale sopravvivenza.
(a cura di Andrea Maria Simoniello)
Formazione
Irene Schweizer /piano
Mani Neumeier / drums
Uli Trepte / bass
Dewan Motihar / vocals, sitar
Keshay Sathe / tabla
Kusum Takhur / tambura
Barney Wilen / tenor & soprano saxophone
Manfred Schoof / cornet, trumpet
Manfred Schoof / cornet, trumpet
* Biografia e Discografia di Irene Schweizer
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